La strada che non porta ad Electrolux
A imprenditori e sindacati manca un solo passo per rendere le relazioni industriali scudo della crisi e volano della crescita. Per capire quale, bisogna ripercorrerne l’evoluzione che, in sostanza, ha conosciuto quattro fasi[1].
La prima è quella che risale alla fine degli anni 60: partiti e sindacati alleati contro il “capitale”, per rendere il salario “variabile indipendente”.
Lo scenario era questo: le grosse aziende, “statizzate” dalla fine della seconda guerra mondiale perché conservassero le potenzialità della “grande Italia” fascista, erano a poco a poco diventate sezioni distaccate dei partiti, che ne mantenevano il pieno controllo.
Il copione il seguente: i sindacati protestavano perché il lavoro doveva “rendere liberi tutti”; i partiti e dunque i vertici delle aziende, da questi manipolati, rispondevano a suon di retribuzioni più alte; le imprese, per contro, perdevano profitto e dunque produttività.
La seconda fase è quella che risale ai primi anni 90: sindacati, senza partiti, contro il “capitale”.
Lo scenario era cambiato: il costo dei diritti, come quello dei lavoratori a retribuzioni alte, era diventato eccessivo; lo Stato non poteva più permetterselo perché, anche per questo, si era ammalato da un debito pubblico pari a circa il 100% del Pil, contro il 36,6% del 1970 e il 57% del 1980; sulla spinta dei governi di austerity, prendevano avvio le privatizzazioni; il capitale passava quindi dalla mano pubblica a quella privata.
Per forza di cose, anche il copione era cambiato: i sindacati non rappresentavano più tutti i lavoratori ma solo quelli “protetti” dallo Statuto del 1970; protestavano ma non facevano più lo stesso rumore, perché i partiti , messi ai cancelli dalle azienda, avevano perso interesse ad amplificarlo; i privati rispondevano con soluzioni a metà, ma soprattutto senza automatici aumenti della retribuzione, per salvaguardare la produttività dell’impresa, che non caso cresceva.
La terza fase risale agli anni 2000: i sindacati spaccati contro il “capitale”.
Lo scenario era ancora una volta cambiato: l’unità sindacale aveva subito una grave rottura culminata nel 2009 nella mancata firma della FIOM-CGIL al rinnovo del ccnl dei metalmeccanici; i sindacati, per questa rottura, avevano perso di rappresentatività e potere contrattuale con il “capitale”; si erano indeboliti ed esposti al rischio di scomparire.
Il copione era drammatico: i sindacati protestavano, ciascuno via via più spesso separatamente; il “capitale” era sordo alle proteste ed anzi, per far fronte alla crisi di produttività, aveva preso a imporre condizioni meno vantaggiose per il lavoratori; per questa crisi, malgrado gli sforzi, la produttività aziendale non decollava; le imprese ora sopravvivevano appena, ora chiudevano i battenti.
La quarta fase è quella attuale: i sindacati sono di nuovo uniti contro il “capitale”.
Lo scenario quindi è questo: i sindacati hanno ritrovato l’unità d’azione con l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011; si sono dati pensiero di recuperare la rappresentatività dal basso, e dunque tra gli iscritti; a tale fine, hanno sottoscritto prima l’accordo del 31 maggio 2013 e poi il regolamento attuativo del 10 gennaio 2014 e completato perciò il passaggio dal sistema di rappresentatività presunta (delle rsa) a quello di rappresentatività effettiva (delle rsu).
Il copione, però, resta quello drammatico degli anni 2000, ed anzi è peggiorato: i sindacati, per quanto di nuovo uniti e più rappresentativi, protestano contro un “capitale” sordo, che anzi minaccia di fuggire all’estero o, in alternativa, di abbattere drasticamente i diritti dei lavoratori.
Tra la terza e la quarta fase, dunque, qualcosa non è andato. Ed allora qual è il passo che sindacati e imprenditori non hanno fatto? Come deve prospettarsi la quinta fase?
La risposta è una sola: i sindacati e gli imprenditori hanno mancato di allearsi contro la crisi, come si fosse dalla stessa parte, e continuato a vivere con l’idea del conflitto tra il “salario” e il “capitale”.
Ed invece, per uscire dal pantano, non c’è più bisogno di “exit”, ma semplicemente di “loyality” tra sindacati e imprenditori e di unica “voice” contro la crisi, per dirla con Hirschman.
Ciò verso precisi obiettivi. Ad esempio, più contrattazione collettiva di secondo livello con la partecipazione del sindacato alle scelte delle imprese e dei lavoratori agli utili. Ma soprattutto, in questa prospettiva, più quota di salario rimessa alla volontà di imprenditori e sindacati, contro la cultura dei minimi retributivi stabiliti dal ccnl.
In questo modo, le imprese avrebbero infatti possibilità di ancorare i salari al proprio trend produttivo, di pagare a seconda di esso di più o di meno i lavoratori, incentivati per questo a produrre in misura maggiore, dunque di sopravvivere e in definitiva di garantire nel tempo l’occupazione.
Ed invece, allo stato, le imprese sono obbligate a pagare retribuzioni stabilite da attori che si muovono su un palco che non vedono. E così, quelle piccole talora collassano; le grandi fanno resistenza a ricorrere alle retribuzioni premiali.
Si tratterebbe, in fondo, di un esempio di “connettività”[2] tra imprenditori e sindacati, come quella già sperimentata negli altri Paesi, a partire dalla Germania sino alla Russia con il sindacato IATUO Lukoil. Ma soprattutto, di una via che non conduce ad un bivio di nome Electrolux.
Ciro Cafiero
Collaboratore della cattedra di diritto del lavoro presso la Luiss e la Lumsa
[1] Per una più compiuta indagine sul ruolo e sull’evoluzione del sindacato, si veda M. Martone, Governo dell’economia e azione sindacale, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, Vol. XLII, diretto da F. Galgano, Padova, 2006
[2] In questo senso si veda, F. Occhetta, La società italiana: tra sopravvivenza e innovazione, La Civiltà Cattolica, 18 gennaio 2014, 3926, pag. 119 e ss.