Ho riflettuto a lungo prima di decidere se intervenire o meno su quanto avvenne nell’ormai lontano luglio del 1992. Alla fine ho deciso di farlo, non certo per correggere o peggio contrastare quanto scritto da coloro che sono fin qui intervenuti, per i quali, peraltro, ho sempre mantenuto e tuttora mantengo un sentimento di stima profonda. Ma per due altre ragioni. La prima è che di quel periodo mi sono trovato ad essere interprete e testimone diretto e, secondo, perché quella data rappresenta una delle pagine più difficili e controverse, ma anche straordinarie, della storia dell’Italia e della Cgil. Per questo, il comportamento e le decisioni di una persona altrettanto straordinaria come Bruno Trentin, non meritano imprecisioni o vaghezze, ma esigono di essere chiarite e conosciute per come realmente esse sono avvenute. Il mio ruolo nella vicenda non è stato certo centrale, perché mi trovavo in una fase di passaggio nella vita della Confederazione nella quale, in vista di un riassetto della segreteria, mi era stata affidata temporaneamente la responsabilità della politica contrattuale della Cgil, ma Bruno aveva voluto che, con questa veste, partecipassi a pieno titolo a tutte le trattative con il Governo e la Confindustria oltre che alle riunioni, quando all’odg vi erano questi temi, della stessa segreteria.
Per comprendere bene quanto avvenne la prima cosa che va chiarita è che al 31 luglio ci si arriva dopo una serie di eventi stringenti e non fu mai un fulmine improvviso a ciel sereno.
Ci si arriva a partire dalla stessa costituzione del Governo Amato nei primissimi giorni di luglio, in un quadro terrificante nel quale gli avvisi di garanzia continuavano a colpire a raffica una larga parte della classe politica, mentre la mafia aveva appena compiuto l’efferato attentato di Capaci e si apprestava a compiere quello contro il giudice Borsellino che avvenne proprio in quei giorni, il 19 luglio di quell’anno. Con una situazione economica fuori controllo, segnata da un debito aumentato in pochi anni di venti punti, con le aste dei titoli di Stato in cui buona parte restava invenduta nonostante che il rendimento fosse arrivato al 12,5%, con un attacco speculativo alla lira (e alla pesetas) dei mercati internazionali; un’inflazione a doppia cifra e un fabbisogno che era arrivato al 10.4%. Di questa situazione catastrofica in Bruno Trentin e nel gruppo dirigente della Cgil vi era piena e profonda consapevolezza. L’unica vistosa eccezione era quella di Fausto Bertinotti che pur non negandola nei fondamenti, temeva solo che tutto il peso delle misure di risanamento poi sarebbero finite per scaricarsi solo sulle spalle delle classi sociali più deboli a partire dall’abolizione della protezione della scala mobile. Ma che bisognasse intervenire e anche rapidamente non sfuggiva a nessuno e nessuno, a partire da Bruno, ebbe da obiettare sulla fosca previsione che fece Giuliano Amato, nel discorso programmatico di insediamento del suo Governo, quando aveva affermato che, se non l’avessimo fatto con la massima efficacia e urgenza possibile, il destino dell’Italia nel mondo sarebbe stato quello di diventare molto rapidamente una sorta di Disneyland, ovvero un parco giochi per i mercati internazionali.
Le trattative con il Governo iniziarono subito, già dal giorno successivo all’insediamento, con un incontro con i ministri Barucci e Reviglio sulla manovra economica che il Governo intendeva immediatamente varare. In ballo c’era, tra le varie voci che l’avrebbero composta, anche un intervento sull’Irpef, con un’addizionale di almeno un punto per reperire non meno di cinquemila miliardi. Unitariamente fu deciso di chiedere un incontro con il Presidente del Consiglio a cui fu avanzata l’ipotesi di non toccare l’Irpef bensì di introdurre una “minimum tax” sul lavoro autonomo. Il Presidente non si sbilanciò, e poi tutti scoprimmo nella notte successiva di quando la manovra di 30.000 miliardi fu varata, venerdì 10 luglio, a mercati chiusi, che il Governo aveva deciso di non percorrere né una strada né l’altra, ma di introdurre un prelievo forzoso del 6 per mille sui depositi bancari e postali, per una cifra corrispondente appunto all’incirca a 5.000 miliardi.
Trentin decise di convocare immediatamente il Comitato Direttivo (13 e 14 luglio) nel quale informò in dettaglio ciò che era avvenuto ed avvertì che personalmente era del tutto convinto che quella manovra non sarebbe stata risolutiva e che il Governo sarebbe stato costretto a reintervenire rapidamente e che, in quel caso, in ballo ci sarebbe stato sicuramente il destino della scala mobile e che, per questo, la Cgil non avrebbe dovuto trovarsi a quel punto, con le spalle al muro, armata solo con una posizione di resistenza. E fu facile profeta. Infatti pochi giorni dopo, con una drammatica intervista, il Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, avvertì che la manovra era stata necessaria ma non sufficiente, che lui era costretto a mettere mano quasi quotidianamente alle riserve e che, per rassicurare i mercati aveva dovuto aumentare il tasso di sconto dal 12 al 13%, ma che tutto questo non sarebbe bastato senza che tutte le forze, a partire dalle parti sociali, non si fossero strette in un patto per salvare il Paese da quello che oggi chiameremmo il destino di un default certo.
Amato ci informò della sua decisione di aprire immediatamente un tavolo di trattativa a partire da martedì 28 luglio e che la sua intenzione era comunque quella di varare una manovra straordinaria, di dimensioni almeno triple rispetto a quella di qualche giorno prima, entro e non oltre la fine del mese di luglio per cercare di tamponare l’emergenza e di avere un impatto sui mercati internazionali. Il venerdì precedente ci riunimmo prima come segreteria della Cgil e poi, nella sede della Cisl, unitariamente, riunioni in cui in realtà decidemmo di non decidere, bensì di attendere che fosse il Governo ad essere il primo a voltare le carte. Trentin, in ogni caso, fece convocare il direttivo della Cgil per il lunedì pomeriggio successivo e dopo l’informazione, si convenne che da mercoledì 29 si doveva riunire permanentemente la Direzione della Cgil, una sorta di esecutivo, che funzionasse come delegazione allargata alla trattativa da tenere in sede, in modo da poterla continuamente consultare.
La trattativa iniziò effettivamente il 28 mattina e durò pressocché ininterrottamente fino a venerdì 31. Una trattativa strana fatta più di informazioni sui punti sui quali il Governo era intenzionato a intervenire, su ciascuno dei quali veniva ascoltata la posizione delle parti, senza mai però aprire di fatto un negoziato.
D’altronde i punti erano numerosi al fine di raggiungere una cifra di quasi centomila miliardi di lire (alla fine com’è noto ci si attestò a 93.000) ed andavano dalle pensioni, alla politica fiscale, dalle politiche economiche con la privatizzazione di parte del patrimonio pubblico – Iri ed Eni comprese – alle politiche salariali.
Su queste ultime il Governo ci avanzò una proposta complessa i cui capisaldi erano: l’abolizione della scala mobile sostituita con una misura temporanea e forfettaria di ventimila lire mensili, la moratoria della contrattazione aziendale fino a tutto il 1993 per evitare che si scatenasse nelle imprese, un’azione per recuperare quanto veniva bloccato con l’abolizione della contingenza con effetti non calcolabili sull’inflazione; il mantenimento della contrattazione solo per i casi di ristrutturazioni aziendali; l’impegno di un intervento di moderazione sui prezzi e sulle tariffe e la convocazione delle parti, entro e non oltre il 15 settembre, per avviare un tavolo di trattativa per definire un nuovo assetto della contrattazione e delle politiche salariali in un quadro di concertazione riguardanti le politiche di tutti i redditi. Ciò che, detto per inciso, avvenne con un ritardo di un mese e mezzo, perché si avviò in realtà nei primi giorni di novembre per concludersi, com’è noto, dopo nove mesi con Ciampi che nel frattempo era diventato presidente del Consiglio, il 23 di luglio del 1993.
Trentin, in tutte le sedi, non criticò mai l’entità complessiva della manovra che, per usare le sue parole che ripeté più volte, considerava “ un passo obbligato per salvare il Paese dalla bancarotta”, ma sulla sua composizione interna per la parte riguardante il salario. E non fu mai la scala mobile il suo punto dirimente, quanto l’intenzione di intervenire con il blocco della contrattazione aziendale che riteneva sbagliata per due motivi. Il primo perché una parte terza, il Governo, interveniva in quel modo di autorità su un punto lesivo della autonomia delle parti sociali; secondo perché, in questo modo, il Governo esprimeva anche un giudizio sulle parti, ritenute evidentemente incapaci di essere loro stesse in grado di governare in senso razionale e coerente, l’esercizio della contrattazione. Da ultimo – e quante volte questo fu un punto di confronto duro con il Presidente del Consiglio – con la moratoria non si interveniva sulla quantità della manovra che non era in discussione, ma solo su un diritto delle parti con esiti peraltro nemmeno quantificabili ai fini delle politiche di risanamento. Fu questa una preoccupazione eccessiva o addirittura sbagliata? Personalmente, per quel che conta, non l’ho mai condivisa e lo espressi in tutte le occasioni, pubbliche o private, formali o informali nelle quali ebbi il modo di esprimermi. Non perché non ne capissi la lesione del principio, ma in una fase come quella, obiettavo che in realtà il Governo non stava facendo altro che una “moral suasion”, per due motivi. Perché le Confederazioni sindacali non avevano la piena disponibilità della materia e secondo, perché se alla fine in un’impresa si fosse realizzato un accordo salariale, non si capiva davvero cosa mai sarebbe potuto succedere, chi e come l’avrebbe potuto invalidare e renderlo inesigibile, in assenza com’era ovviamente logico di alcun quadro sanzionatorio. Certo se questo punto non fosse stato presente, tanto meglio; ma nel caso contrario, non poteva rappresentare la ragione sufficiente che giustificava la rottura e l’isolamento. Tuttavia non posso nemmeno sottovalutare che la maggioranza delle strutture della Cgil, specialmente le federazioni delle categorie industriali e le strutture regionali del nord, erano decisamente contrarie perché non trovavano né sopportabile né gestibile un accordo nel quale, allo stesso tempo, si aboliva la scala mobile e si bloccava la contrattazione aziendale. Anche perché se ciò si fosse verificato sarebbe stata tutta benzina per il movimento degli autocovoncati, come i dissidenti venivano definiti in quel periodo, rendendo difficilissima la gestione e la praticabilità dell’accordo.
Giungemmo fino in fondo al negoziato senza che il Governo scoprisse mai le proprie carte su questo punto.
L’ultimo incontro avvenne, come da prassi, nella nottata di giovedì 30 ed anche questo non fu risolutivo sul punto, tranne che Amato c’informò che la trattativa era da considerarsi chiusa e che il Governo sarebbe passato alla stesura del testo d’accordo che avrebbe sottoposto, come non modificabile, nel pomeriggio del giorno successivo, 31 luglio.
Rientrammo in sede, convocammo nuovamente la Direzione e Trentin informò in dettaglio lo stato del confronto, chiedendo a ciascuno di esprimersi conclusivamente. Ma non ci volle molto a capire che la maggioranza dei dirigenti non era d’accordo qualora il testo finale avesse contenuto non solo l’abolizione della scala mobile ma anche la moratoria contrattuale. Per questo Bruno, verso la fine della riunione, chiese ad Ottaviano Del Turco di avvertire Palazzo Chigi sulla posizione che ormai stava definendosi nella Cgil. Nel frattempo fummo avvertiti che D’Antoni e Larizza ci chiedevano di vederci a fine mattinata per verificare con quale posizione ci saremmo recati a Palazzo Chigi, giacchè il Governo ci aveva convocato per le 17.
La riunione fu fissata alle 13 e 30, in Cgil e D’Antoni e Larizza furono puntualissimi. Nella sala delle riunione della segreteria al quarto piano di Corso d’Italia, però con loro ci trovammo soltanto io e Sergio Cofferati che cercammo di far trascorrere i minuti con qualche battuta e qualche chiacchiera. Poi arrivò Ottaviano che informò che Bruno non si sentiva molto bene e che non era in grado di partecipare alla riunione. Dopo un attimo di disorientamento, D’Antoni chiese se Bruno sarebbe stato in grado o meno di partecipare all’incontro con il Governo e se al momento era ancora in sede, in modo da poterlo salutare. Bruno era nella sua stanza e tutti andammo a trovarlo e lui ci rassicurò che sicuramente non sarebbe mancato all’incontro con il Governo.
Durante il pomeriggio ricevetti una telefonata da parte di Epifani che mi chiese se avevo intenzione di andare a Palazzo Chigi perché Ottaviano non avrebbe partecipato e purtroppo nemmeno lui stesso, giacchè aveva avuto un improvviso problema a casa che non lo metteva in condizione di esserci.
Nella Sala Verde, al terzo piano di Palazzo Chigi, Amato lesse il testo del Protocollo finale. Per quel che ci riguardava il punto sul salario, non era stato modificato. Poi si passò alle firme. Con il testo che prese a circolare lungo il tavolo. Quando arrivò alla delegazione sindacale, Larizza e poi D’Antoni firmarono, passando il testo a Bruno. Bruno accese il microfono e chiese ad Amato la possibilità di poter riunire la sua delegazione. Amato ci mise a disposizione subito una sala, mentre l’accordo aveva ripreso a circolare raccogliendo altre firme.
Fummo scortati in una stanza al secondo piano di Palazzo Chigi e ci sedemmo intorno ad un piccolo tavolo rettangolare. Non eravamo in molti. Le segreteria era presente in sei, compreso Bruno, più il sottoscritto e Stefano Patriarca, il direttore del nostro istituto di ricerca. Bruno disse soltanto: “Il testo l’avete ascoltato: ditemi la vostra opinione”.
I primi quattro interventi furono due contro e due a favore. Bruno a quel punto lo chiese, pur se non ne avevamo alcun titolo, anche a me che a Patriarca. E così si giunse a tre contro e tre a favore. A quel punto era rimasto solo Cofferati che non aveva parlato. Lo fece e motivò brevemente la sua opinione a favore della firma, anche tenendo conto che la Cisl e la Uil l’avevano già fatto e che l’isolamento della Cgil avrebbe potuto poi inibire la presenza al tavolo sulla politica dei redditi e la contrattazione che, a quel punto, diventava l’appuntamento fondamentale.
Bruno non aggiunse altro. Si alzò per andare a firmare, non prima di aver chiesto a me ed a Sergio di tornare in sede per informare la Direzione. Cosa che facemmo con una riunione che si protasse oltre la mezzanotte, in un clima disorientato e gelido. Poi Sergio telefonò a Bruno per informarlo ed io lo feci con Ottaviano.
Poi andammo con Sergio a comprare, in via Veneto, le prime edizioni dei giornali.
Fu soltanto qualche ora dopo che venimmo a sapere che Bruno si era dimesso.