Fermiamo l’arrivo di nuovi stranieri ed occupiamoci di quelli che già sono qui. Sembra questa la soluzione proposta dalla Cgil veneta che incontra il parere favorevole delle associazioni di categoria – con l’esclusione della Coldiretti, preoccupata dal poco tempo a disposizione – e della Lega Nord, con in testa il neo-governatore Zaia. Certo, davanti ad una disoccupazione crescente, una ripresa a singhiozzo ed una legge nazionale che considera automaticamente clandestino il lavoratore straniero che perde il lavoro, che senso ha preoccuparsi delle nuove quote di stagionali. Ed allora ecco la soluzione che mette tutti d’accordo: fermiamo i nuovi arrivi ed occupiamoci del ricollocamento dei lavoratori già presenti sul nostro territorio e, se necessario, favoriamo la mobilità regionale.
Ma le persone non sono pacchi che si possono spostare a piacere. Allora perché parlare di regionalizzazione delle quote e bloccare i flussi nella nostra regione? Troppe sarebbero infatti le questioni aperte: come possiamo credere di impedire la mobilità dei migranti tra le varie regioni quando, nella maggioranza dei casi, non siamo stati in grado di monitorare i flussi precedenti? E con quali risorse? Lo stesso Barbiero, segretario generale della Cgil di Treviso, nel mentre fa la proposta ricorda come le prefetture siano in affanno, ancora intente a smaltire le pratiche di regolarizzazione accumulate negli anni passati.
Inoltre, come ha ben sottolineato Lorenzon, segretario generale della Cisl di Treviso, come possiamo pensare di spostare un lavoratore – italiano o immigrato – in difficoltà e trasferirlo d’autorità in un altro luogo? Senza poi considerare gli effetti di una manovra che, in un contesto per esempio come quello di Verona, vedrebbe coinvolti oltre 5.500 stagionali.
Non serve rincorrere la paura dell’immigrato, prospettando una nuova Rosarno – come se Veneto e Calabria presentassero le stesse criticità – specie da parte di chi fino all’altro ieri, si è rifiutato di guardare all’immigrazione come un fenomeno epocale con un lato oscuro.
Abbiamo sempre messo al centro l’idea di responsabilità. Bene, essere responsabili significa ragionare per il bene comune, fuori da quegli schemi ideologici che, a priori, ci dicono cosa è giusto e cosa non lo è; significa guardare nel futuro ma comprendere e governare il presente – senza tuttavia esserne schiavi -, con serietà, per evitare di dover poi rincorrere i diversi populismi originati dalle trasformazioni socio-economiche.
Lo stesso approccio vale per l’immigrazione, una sfida che certamente non si esaurirà con la legislatura di Zaia e che, per esempio in virtù dei cambiamenti climatici, nei prossimi anni diventerà ancora più forte.
Per questo, pensare di bloccare le quote – come si fa con le marci nei container – rappresenta una strategia emergenziale, un provvedimento tampone che legittima chi sul fuoco dell’immigrazione ha sempre soffiato e che oltretutto non risolve il problema. Negli ultimi anni, nonostante la diversa impostazione culturale delle leggi sull’immigrazione, gli immigrati sono infatti cresciuti in maniera costante, espressione questa di un fenomeno epocale, non gestibile solamente attraverso la regolazione di flussi, il controllo alle frontiere, la repressione.
Non possiamo lasciare le persone in balia della crisi, trattandole come un fattore produttivo qualsiasi, utilizzabile a piacere in funzione delle contrazioni della domanda. In un mondo globale sempre più instabile, incerto e in continuo movimento, i migranti costituiscono solo la parte più visibile della trasformazione che mette oggi alla prova la tenuta della nostra società, dei nostri territori.
Di fronte a ciò, qual è l’atteggiamento degli opinions leader? Risposte giuste, perché retoriche, a domande sbagliate. Quello della Cgil veneta può quindi apparire un ragionamento pragmatico che davanti alle evidenze affronta il fenomeno in maniera responsabile. Ma non è così. Si tratta invece di un atteggiamento che elude la sfida – anche culturale – dell’immigrazione; una sfida che caratterizzerà i prossimi anni e che dobbiamo affrontare e vincere attraverso l’integrazione.
E allora facciamolo. Affrontiamo il problema alla radice: raggruppiamo le forze, chiamiamo a raduno i sindacati, la società civile, il volontariato, i partiti e le parrocchie, il mondo della produzione, e gettiamo le basi per risolvere il problema in maniera lungimirante, con il solo fine di consentire l’emancipazione dei migranti. Attenzione, l’emancipazione, non la tutela perpetua. Dobbiamo superare lo stigma del migrante da difendere perché incapace di farsi valere, non è più così, o almeno non solo. Parliamo di individui che, nella maggioranza dei casi, sono italiani di fatto, integrati e consapevoli. Diceva un detto cinese: dai un pesce ad un uomo e lo sfamerai per un giorno. Insegna ad un uomo a pescare e lo sfamerai per tutta la vita.. È arrivato il momento di insegnare a pescare a queste persone, recidendo il cordone ombelicale con la solidarietà fine a se stessa, e garantendo i diritti e le opportunità che questa regione offre ai suoi cittadini di diritto. Quando diciamo che dalla crisi niente sarà più come prima ci riferiamo anche, o forse soprattutto, alla dimensione sociale e demografica della globalizzazione. Per anni abbiamo criticato la concezione economicista dell’integrazione europea e del mercato globale, ed oggi non possiamo ripensare alla nuova Italia delle seconde e terze generazioni migranti unicamente sulla base di un calcolo costi/benefici.
Per questo dobbiamo perseguire una prospettiva multidimensionale, che alla dimensione economica affianchi quella sociale, identitaria e, perché no, conflittuale. Ogni innovazione comporta necessariamente un processo di distruzione creatrice, e quindi vincitori e vinti. Ma questo è un percorso a ostacoli, che spesso intacca interessi consolidati. Tutto ciò non può però essere sufficiente a ridimensionare l’azione di un sindacato che ricerca la sua legittimazione nel futuro, portabandiera della sperimentazione e svincolato da logiche novecentesche. Il mondo e la società sono cambiati, ma sembrano davvero pochi quelli che hanno colto la reale portata di questa trasformazione.
Tre sono le riforme strutturali che siamo chiamati a sviluppare:
1) Riforma del fisco: la “vera” riforma, capace di liberare le risorse necessarie per sostenere una nuova fase di sviluppo. Ripensare la tassazione significa aiutare le imprese ad innovare, sostenere gli investimenti e al tempo stesso dare una boccata d’ossigeno ai consumi attraverso un incremento del reddito di dipendenti e pensionati. Questa, come tutte le sfide, richiede lungimiranza, sacrificio e visione, ma le risorse liberate – oltre a rappresentare un cambio di passo nel rapporto tra stato e cittadini – rappresentano la piattaforma economica sulla quale strutturare altre riforme diventate oramai inderogabili;
2) Welfare e mercato del lavoro: rimettere al centro la persona non è solo una frase retorica, ma rappresenta una strategia concreta volta a superare le distinzioni di classe, religione o etnia per dare ad ogni singolo individuo un insieme di doveri, diritti e tutele che si collegano al principio di cittadinanza e che esprimono nel welfare locale la loro concreta manifestazione. Dobbiamo anzitutto proseguire lungo la strada della riforma del mercato del lavoro per promuovere quelle tutele sociali indispensabili ad evitare una nuova “guerra tra poveri”, e che consentano al nostro territorio il dispiegamento di quella dimensione comunitaria che lo contraddistingue: quel capitale sociale fatto di reti informali capaci di attutire i colpi della crisi. Noi candidiamo il Veneto a gestire il mercato del lavoro in maniera innovativa, promuovendo la sperimentazione a livello regionale della c.d. flexsecurity. Tutto questo significa perseguire nuove pratiche frutto di processi di sperimentazione – e non di contrapposizione -. Il Veneto, infatti, è già un laboratorio che condiziona il paese; lo abbiamo visto anche con gli ammortizzatori in deroga, ci sentiamo oggi pronti ad una nuova sfida.
3) Cittadinanza: passando dallo ius sanguinis allo ius soli, ripensare i tempi ed i meccanismi della cittadinanza per consentire a coloro che contribuiscono attivamente al benessere del paese di non sentirsi né tutelati a tempo determinato né considerati diversi, stranieri in una terra oramai loro.
Non possiamo rimanere in balia degli eventi, non possiamo continuare a considerare gli immigrati cittadini di serie B, da difendere sulla base della congiuntura economica. Garanzia del reddito – e non solo battaglie per il “posto -, formazione e solidarietà; solo con questi strumenti una comunità matura e consapevole può gestire al meglio le sfide dell’oggi e preparare un domani migliore. La riforma fiscale dovrà liberare le risorse necessarie. Questo significa attrezzarsi per estendere le tutele, i diritti e le responsabilità – quelle vere – per il bene degli altri e del nostro territorio.
E’ l’altra faccia di quel processo che vede il Veneto impegnato a riconsiderare il suo modello di sviluppo. Non solo la dimensione economica, manifatturiera e produttiva, ma anche quella sociale ed identitaria per ripensare il ruolo di coloro che abitano e vivono il sistema sociale, e che non solo vi risiendono. Le nostre città, le nostre province, la nostra regione per questi nuovi cittadini italiani non possono trasformarsi, alla maniera di Augé, in “non luoghi”.
Non siamo ingenui, siamo i primi a comprendere le difficoltà di un complesso di riforme di questa portata, ma non possiamo continuare con il “gioco del cerino”, in attesa che qualcuno rimanga scottato. Ogni territorio manifesta proprie dinamiche occupazionali segnate da profonde difficoltà, non solo il Veneto, e allora cosa dobbiamo fare? Ogni regione deve chiudersi a riccio perché è salito il tasso di disoccupazione? No, la posta in gioco è troppo alta: il futuro delle nuove generazioni, l’inclusione politica necessaria ad evitare dinamiche conflittuali, la tutela – non solo urbanistica – del nostro territorio e la progettazione di un nuovo modello di sviluppo, e quindi di società.
Non possiamo continuare a farci tutori di coloro che nei prossimi anni rappresenteranno 1/3 della nostra popolazione, e che certo non saranno fermati da leggi inapplicabili e ingiuste. Il Veneto è sempre stato un laboratorio capace di fare proprie le novità derivanti dalle trasformazioni: siano essi i commerci con l’oriente intrapresi dalla Serenissima o la spinta alla formazione di Pmi davanti alle crisi petrolifere o del credito degli anni ’70.
Il prossimo anno ricorre il 150 dell’Unità; l’Italia è stata fatta, gli italiani un po’ meno. Vediamo di compromettere quelle che saranno le future generazioni. La Cisl veneta è pronta, speriamo che anche altri siano desiderosi di raccogliere la sfida.