Non avevo ancora compiuto 19 anni il 20 gennaio 1960 quando fui cooptato nella visione di un futuro aperto a grandi speranze, ascoltando le parole di John F. Kennedy. Il Presidente della Nuova Frontiera non si rivolgeva soltanto ai suoi concittadini, ma ai popoli di tutto il pianeta. “Infine, che voi siate cittadini dell’America o del mondo, chiedete a noi, qui, le stesse prove di forza e di sacrificio che noi chiediamo a voi”. Un impegno di solidarietà e di destino comune, di cui si è smarrita ogni traccia venerdì scorso. Suggerisco a chi volesse consolarsi della miseria dei nostri tempi la lettura di un libro di Thurston Clarke intitolato “Ask not. Il discorso di John F. Kennedy che cambiò l’America’’ (Il Saggiatore, 2004). E’ un testo che racconta il lavoro preparatorio del discorso del presidente Kennedy in quel magico 20 gennaio di mezzo secolo fa: un messaggio che rimbalzò da un capo all’altro dei continenti come il segnale di una svolta epocale e dell’affermazione di una nuova leadership del mondo libero (“nata in questo secolo”). “A coloro che nelle capanne e nei villaggi di metà del mondo lottano per infrangere le catene di una diffusa miseria, promettiamo i nostri sforzi migliori per aiutarli a provvedere a se stessi per tutto il tempo che sarà necessario”. E ancora: “Alle Repubbliche sorelle a sud dei nostri confini, offriamo una speciale promessa: di tradurre le buone parole in fatti concreti, in una nuova alleanza per il progresso, di aiutare gli uomini liberi e i governi liberi a spezzare la catena della povertà”. Questo ed altro in quell’Inauguration day della speranza. Certo – si dirà – tante cose da allora sono cambiate. Ma alla Casa Bianca c’è Donald Trump e il suo programma (ammesso che ne abbia uno) è un passo indietro non solo nella storia, ma anche nell’economia. Pretendere di riportare la manifattura negli States invertendo la divisione internazionale del lavoro che grazie alla globalizzazione ha liberato dalla fame miliardi di esseri umani non conviene a nessuno, nemmeno agli americani. Ascoltando le teorie economiche degli stregoni di Trump, mi è tornato in mente un brano che avevo letto, anni fa, nel saggio “La nuova geografia del lavoro” di Enrico Moretti (Mondadori). Nell’introduzione, in cui l’autore riassume i grandi filoni della ricerca, viene ricordato il processo produttivo dell’iPhone, un prodotto-simbolo che, nato negli Usa, ha ormai conquistato i consumatori di tutto il mondo, in particolare i giovani. L’iPhone è un prodotto ad altissimo livello di tecnologia, costituito da centinaia di componenti elettronici sofisticati, unici e delicati. Eppure – scrive Moretti – i lavoratori americani entrano in gioco solo nella fase iniziale dell’innovazione. Il resto del processo, compresa la fabbricazione dei componenti elettronici più complessi, è stato completamente delocalizzato all’estero. Seguiamo, allora, su di un immaginario mappamondo il tragitto produttivo di questo oggetto entrato ormai nella vita di tutti i giorni. L’iPhone viene concepito e progettato da ingegneri della Apple a Cupertino in California. Questa, come abbiamo già ricordato, è la sola fase “americana” nella fabbricazione del prodotto e consiste nel design, nello sviluppo del software e dell’hardware, nella gestione commerciale e nelle altre operazioni ad alto valore aggiunto. In questo stadio, il costo del lavoro è un problema secondario. Gli elementi-chiave sono la creatività e l’inventiva degli ingegneri e dei designer. I componenti e i circuiti elettronici sono fabbricati oltreoceano a Singapore o a Taiwan. Arriva poi la fase dell’assemblaggio e della produzione vera e propria. E’ questa la tappa che richiede più alta intensità di manodopera, in cui, pertanto, la componente costo del lavoro assume un particolare rilievo. La lavorazione dell’iPhone sbarca in Cina, in una fabbrica alla periferia di Shenzhen che è forse la più grande al mondo con i suoi 400mila dipendenti. Così a chi compra il prodotto on line, esso viene spedito da questo kombinat che, più che ad una fabbrica, somiglia ad una città, con supermercati, cinema, dormitori, campi sportivi. L’iPhone è formato da 634 componenti, ma la maggior parte del valore aggiunto proviene dalla originalità dell’idea, dalla progettazioni ingegneristica e dal design. La Apple ha un utile di 321 dollari per ogni iPhone venduto, pari al 65% del totale e ben più di qualsiasi fornitore di componenti. Eppure – ricorda Enrico Moretti – l’unico lavoratore americano che tocca il prodotto finale è l’addetto alle consegne dell’UPS. Assistiamo cosi, nella globalizzazione, ad un nuovo modello di divisione internazionale del lavoro. Certo, la pandemia – in seguito ai problemi insorti nella mobilità delle persone e delle merci – ha consigliato di accorciare le catene del valore. Ma il decentramento produttivo rimane una esigenza imprescindibile. Un lavoratore americano o europeo può godere dei diritti che gli vengono riconosciuti, soltanto perché certe componenti del prodotto vengono garantite a costi inferiori, pur nell’evoluzione del decentramento stesso. Il caso dell’IPad dimostra, infatti, che non si tratta più, come alcuni decenni or sono, di scaricare sui paesi emergenti i settori maturi o inquinanti o di imporre loro, come durante il colonialismo, economie prigioniere della monocoltura, soggette alle oscillazioni dei prezzi e dei mercati. Oggi la divisione avviane anche nella fabbricazione di un singolo prodotto con l’apporto del livello di tecnologia e di capacità di innovazione di cui la filiera dei paesi produttori è, di volta in volta, protagonista. Che cosa vorrebbe fare The Trump? Riportare la fabbricazione dei componenti e dei circuiti elettronici e il loro assemblaggio negli Stati Uniti ? E quale sarebbe il costo di un prodotto di cui si vendono miliardi di unità nel mondo proprio perché il suo prezzo è sostenibile? Non si supera – riportando indietro nella storia un modello produttivo scalzato dalla tecnologia e dalle nuove convenienze – il disagio di una middle class bianca americana (ed europea), che si sente privata di tutele, schiacciata tra gli effetti della globalizzazione sulla loro condizione economica e sociale, che non può essere retribuita come quella cinese, mentre le minoranze grazie all’ascensore sociale dei diritti civili entrano a far parte dell’establishment e l’immigrazione contende loro persino il lavoro povero. Tutta la storia economica dell’umanità evidenzia la messa in crisi, in occasione delle sue svolte, di un modello di organizzazione del lavoro e le professionalità che lo caratterizzano. E’ illusorio pretendere di costruire un modello produttivo sulla centralità del lavoro assunta in una fase elevata della sua evoluzione. Nel corso della storia è sempre toccato al mondo del lavoro di adattarsi ai cambiamenti, perché solo così diviene possibile rendere sostenibili nel nuovo contesto, i diritti fondamentali di chi vive del proprio lavoro.
Giuliano Cazzola