C’è una tentazione forte che si aggira nel mondo delle relazioni industriali. Si chiama articolo 8. Chi è del mestiere sa bene di cosa si tratti. L’anno passato, quando in piena estate il governo Berlusconi per salvarsi l’anima più che salvare l’economia del nostro paese, varò una profonda manovra che correggesse i conti pubblici ormai fuori controllo, il ministro Maurizio Sacconi inserì in quel decreto legge un articolo, appunto l’articolo 8, che permetteva ad accordi aziendali, anzi di prossimità come li aveva chiamati, purché firmati dai sindacati, nazionali o aziendali che fossero, di derogare ai contratti nazionali e anche alla legislazione nazionale. Non per tutte le materie, ma l’elenco che si faceva era così ampio da poter affermare che vi rientrava tutto e il contrario di tutto.
L’intento ufficiale era quello di aiutare le aziende in difficoltà, recuperare occupazione, rendere le aziende più competitive. Intenti nobili, ma il provvedimento cadeva nel momento peggiore. Appena un mese prima, a fine giugno, la Cgil era riuscita a sanare il vulnus dell’accordo separato del 2009 sulla contrattazione. Tra le tre confederazioni sindacali e Confindustria era stato raggiunto un accordo nel quale si dava via libera alla possibilità di portare deroghe al contratto nazionale con un contratto aziendale, ma solo in determinati casi, indicati con precisione dai contratti nazionali. Quelli erano i confini e non potevano essere superati.
Quando arrivò il disegno di legge di agosto con il suo articolo 8, fu il finimondo. Si attribuì al ministro Sacconi la volontà di sabotare l’accordo di giugno, che lui indubbiamente non aveva proprio digerito bene, destrutturando così tutta l’impalcatura del diritto del lavoro. Perché è evidente che se un accordo aziendale è in grado di derogare a disposizioni di legge, o di contratto, non c’è più certezza su nulla. Sembrava che finisse nel nulla l’accordo di giugno, che le divisioni tornassero prepotenti a farla da padrone. Poi il colpo d’ala, l’accordo di settembre. Confindustria, Cgil, Cisl e Uil si riunirono ancora una volta e, nel momento in cui firmavano formalmente l’accordo di giugno, aggiunsero una postilla a quell’accordo nella quale si ribadiva che le materie delle relazioni industriali e della contrattazione restano affidate all’autonoma determinazione delle parti sociali e che di conseguenza le parti firmatarie si impegnavano ad attenersi alle norme dell’accordo di giugno e solo a quelle. In pratica si affermava che quell’articolo 8 non sarebbe stato mai applicato.
Tutto di nuovo a posto? Non proprio, perché l’articolo 8 è una disposizione di legge e non è un accordo sindacale a poterlo cancellare. Quella disposizione resta e fa gola. Fa gola perché consente davvero una grande libertà alle parti, e quando si è in presenza di una legge magari giusta, ma troppo drastica, magari nei tempo di applicazione, poterla evitare ricorrendo a questo articolo è una tentazione forte.
Così forte che infatti qui o lì qualcuno la usa. Anche con il consenso dei sindacati confederali, Cgil compresa. C’è stata un’azienda tessile, la Golden lady, che nel luglio scorso si è trovata in difficoltà perché aveva 1.200 dipendenti con contratto di associazione in partecipazione con apporto di solo lavoro e doveva immediatamente metterli in regola con un contratto a tempo indeterminato. La riforma Fornero del mercato del lavoro afferma infatti che un’azienda non può avere più di tre contratti di quel tipo. Nella morsa di una legislazione troppo rigida, azienda e sindacati hanno pensato bene di applicare l’articolo 8 e hanno sottoscritto un accordo che rinviava di un anno il problema, nel corso del quale l’azienda avrebbe trovato il sistema per non licenziare nessuno e mettere tutti in regola. Le confederazioni sindacali si erano impegnate a non utilizzare quell’articolo? Pace.
E non c’è stata solo la Golden lady. Per quanto siamo venuti a sapere, in provincia di Latina sono stati raggiunti già tre accordi, firmati da Cgil, Cisl e Uil, due in altrettante aziende alimentari (la società Midi e la società Buschese) che fanno direttamente riferimento all’applicazione dell’articolo 8 del dl 138/2011 e un altro per il mantenimento e il rilancio dello stabilimento di Haupt Pharma a Latina che, pur non contenendo nel verbale alcun riferimento esplicito, utilizza lo strumento del contratto di prossimità, derogando, di comune accordo con le organizzazioni sindacali, importanti materie del contratto nazionale al secondo livello. E la Federlazio, l’organizzazione provinciale che a Latina fa capo alla Confapi, sta trattando con queste confederazioni e con l’Ugl un accordo quadro che consenta di utilizzare l’articolo 8 per rivedere la legislazione.
Tutto ciò è comprensibile, perché le parti sociali hanno in mano uno strumento che consente praticamente di mettersi d’accordo su tutto o quasi su tutto. Si può rivedere a fondo la legislazione, sempre rimanendo nell’ambito dettato dalla Costituzione. Non è cosa da poco ed è comprensibile che ciò accada. La tentazione di riscrivere o anche solo adattarsi una legge, è forte. Del resto, l’accordo per i chimici ha allargato il bacino delle deroghe rispetto all’accordo del 2011, e quello degli alimentaristi per i contratti a termine usa una formula che fa pensare direttamente all’articolo 8.
Bene o male? Difficile dirlo. Siamo cresciuti nell’utopia che gli accordi potevano fare quello che volevano, bastava mettersi d’accordo, potere adesso farlo davvero fa venire l’acqua in bocca. Ma è vero anche che quello che più di tutto serve, soprattutto alle aziende che si confrontano nei mercati internazionali, sono le certezze. Si deve sapere quando costerà una cosa, come sarà fatta, quanto tempo sarà necessario per averla a disposizione. Certezze sulla cui base le aziende possono fare i loro piani commerciali, possono costruire i loro budget. Se si mette a rischio la legislazione, c’è il rischio di creare isole nelle quali tutto sia consentito, tra l’altro innestando processi di dumping inarrestabili una volta avviati. Le parti sociali debbono poter decidere il loro futuro, ma, come diceva un modo di dire molto in voga nel sindacalese degli anni settanta, gettare il bambino con l’acqua sporca. Ci si farebbe davvero troppo male.