Chi cerca di operare come uomo o donna di buona volontà in questi tempi difficili nella società civile o nel mondo del lavoro, avverte in queste ore il dolore universale per la perdita non di un papa, ma proprio di questo papa.
Papa Francesco ha esercitato un pontificato unico, che ha affrontato e tracciato in profondità il rapporto con il mondo e le società. I 12 anni del suo papato ci sono sembrati di fatto molto più lunghi, proprio per aver dovuto affrontare crisi e criticità sempre più deflagranti: il ritorno delle guerre e dei populismi, l’evidenza delle migrazioni, la pandemia, la corsa esponenziale di una crisi climatica che sembra inarrestabile, l’allargamento delle diseguaglianze.
Arrivato dall’ultimo posto del mondo si è posto prossimo agli ultimi.
In queste ore diversi commentatori lo hanno definito progressista e riformatore. Credo che al di là di queste etichette parziali sia stato soprattutto un papa radicale, ovvero fedele alla radice della parola evangelica originale che tanto sa scandalizzare, ma con semplicità e chiarezza indicare.
I gesti e le scelte, a partire dal nome di Francesco, hanno comunicato più delle parole raggiungendo anche i non cattolici, hanno rotto schemi e regole della Chiesa per far risaltare il segno della fraternità e della forza del messaggio a fianco dei poveri, dei semplici e diseredati.
Chi lavora e chi si occupa di lavoro lo ha sempre ascoltato, compreso e seguito. Sotto ogni bandiera e al di là di ogni identità, la forza trasversale e universale del messaggio sociale di Bergoglio, capace di testimonianza e gesti parlanti, ha orientato in un’epoca nella quale ogni tema sociale divide a prescindere le opinioni tra opposte tifoserie.
Il suo stare al fianco di chi è oppresso e sfruttato, di chi non è ricompensato nella dignità e nella giustizia per il lavoro svolto è un messaggio che ha detto, ha illuminato, ha recuperato in una epoca del tutto secolarizzata chi lavora, soprattutto i più giovani, verso ciò che è autentico e giusto.
Dell’importante patrimonio valoriale che papa Francesco lascia all’umano, forse oggi la dote più rara e più necessaria è la speranza. Il mondo sta vivendo una curva della storia pericolosa e contraddittoria.
E’ con crescente disillusione che soprattutto chi è cresciuto in Occidente rischia di guardare con assuefazione alla guerra che non si arresta in Europa, all’inaccettabile costo di vite umane inflitto a Gaza, oggi terra di “bonifica etnica”, alla crisi delle democrazie, del lavoro e del welfare.
È solo la speranza di poter cambiare ciò, una speranza lontana dall’idea che “andrà tutto bene” ma che diventa progetto sociale, creazione di fratellanza umana, il dono che può portare l’uomo a continuare a sapersi riscattare nel mondo.
È la speranza di Francesco che ci può continuare a fornire la risposta alla crisi della modernità.
Roberto Benaglia