Riflessività dei processi di modernizzazione
In un libro del 2000 dal titolo “La società del rischio” il sociologo tedesco Ulrich Beck vede nella post-modernità, una fase storica che possiamo collocare a partire dagli anni ’70 del secolo precedente, il passaggio dalla “società classista” e della “scarsità” il cui problema fondamentale era la redistribuzione delle ricchezze alla “società del rischio” in cui la riflessività degli stessi processi di modernizzazione e l’accrescimento del “progresso” tecnico-economico è all’origine di rischi sempre più transnazionali e non delimitabili negli ormai angusti confini degli stati nazionali
Pe Beck “Oggigiorno, le persone prendono coscienza che i rischi sono transnazionali e comincia a credere nella possibilità di un’enorme catastrofe, come il radicale cambiamento climatico o un attacco terroristico (o la diffusione pandemica di un virus). Per questo solo fatto noi ci troviamo legati agli altri, al di là delle frontiere, delle religioni, delle culture. In un modo o nell’altro, il rischio produce una certa comunità di destino e, forse, anche uno spazio pubblico mondiale»
Se dunque i rischi “In un primo stadio, possono essere legittimati come “effetti collaterali latenti”… con la loro universalizzazione, con la critica da parte dell’opinione pubblica e l’analisi (anti)scientifica, i rischi emergono definitivamente dalla latenza e acquistano un significato nuovo e centrale per i conflitti sociali e politici”.
“Tutti siamo esposti al rischio, perché tutti viviamo nella società del rischio. Prenderne atto non è solo un gesto di responsabilità, ma comporta un vantaggio strategico. La capacità di anticipare un rischio consente infatti di non trasformare le emergenze in panico sociale e le paure in catastrofi”.
Questo testo profetico che un altro straordinario sociologo, scomparso di recente, Zygmunt Bauman, ha definito “uno dei libri più influenti pubblicati nell’ultimo decennio” ha drammaticamente anticipato la condizione in cui oggi il mondo si trova per non avere messo in atto quell’insieme di misure che avrebbero dovuto limitare l’emergere e ancora di più il diffondersi di nuovi agenti patogeni a potenziale dimensione pandemica: materializzatasi già (non si dimentichi) nella SARS e nella MERS i alcuni anni orsono e oggi ripropostisi in forma più diffusiva nella COVID 19; una serie di infezioni tutte queste prodotte da una submicroscopica forma vivente rappresentata dai betacoronavirus, emersi per la rottura delle barriere tra quei “mondi vitali” separati che consentivano la sopravvivenza e la diffusione dei virus solo all’interno delle popolazioni non umane, quella dei pipistrelli.
La debolezza del nostro paese
Il nostro paese ha affrontato male la pandemia; non tanto nella prima fase in cui era difficile fronteggiare una situazione inedita e che la mancanza di una “cultura del rischio” rendeva altamente improbabile. Di sicuro però questo è avvenuto nella seconda a causa delle catastrofiche aperture delle discoteche della costa Smeralda e l’irresponsabile convinzione che l’epidemia appartenesse ormai al passato.
In questa grave mancanza di visione epidemiologica, ulteriori elementi di imbarazzo e preoccupazione sono il mancato aggiornamento del Piano pandemico del 2006 e la vicenda altrettanto imbarazzante del documento preparato dal team dell’ex dipendente della OMS Francesco Zambon sulla risposta dell’Italia alla pandemia e precipitosamente ritirato dopo poche ore dalla sua pubblicazione.
Non sta a me analizzare le responsabilità di quanto avvenuto, di cui si sta occupando la procura di Bergamo, ma è evidente che aldilà dell’adeguamento del piano quello, che è mancata è stata l’implementazione delle misure che pure erano previste nel Piano del 2006. In altre parole ritengo che se il piano del 2006 fosse stato trasformato in concrete azioni a livello delle singole regioni, noi avremmo disposto di una serie di misure (stoccaggio di mezzi di protezione individuale, di respiratori e farmaci; pianificazione dei posti in terapia intensiva e in reparti di isolamento; formazione adeguata del personale; predisposizioni di piani di limitazione del contagio all’interno dei nosocomi e delle località investite dal contagio, etc) che avrebbero sensibilmente limitato i danni prodotti dalla pandemia e conseguentemente il numero di morti la cui entità ci colloca, purtroppo ai primi posti delle classifiche mondiali.
La responsabilità politica di tale gravissima omissione (su cui i giudici stanno indagando) va dunque e di sicuro addebitata a quei ministri che si sono succeduti al Ministero nel corso degli anni che hanno preceduto l’emergere della pandemia. Una responsabilità che quindi non può essere attribuita all’attuale Ministro Speranza, subentrato successivamente ai fatti. Al ministro Speranza inoltre non sembra neanche che possa essere ascritta la responsabilità diretta nel ritiro del documento Zambon, come precisato da fonti della procura di Bergamo. Tali fonti infatti hanno chiarito che il Ministro, pur mostrandosi contrariato dai contenuti del rapporto in cui si mettevano in evidenze le carenze del nostro sistema di risposta, non sembrerebbe avere contribuito al definito ritiro del documento.
Rimane la perplessità sulle ragioni politiche che hanno spinto il ministro Speranza a mantenere un profilo basso sulla vicenda rinunciando ad aprire i cassetti del ministero e portando quell’aria fresca che ci si sarebbe aspettato dal segretario di una formazione politica che per anni ha sostenuto l’informazione di giornalisti d’inchiesta come Sigfrido Ranucci di Report.
L’amara constatazione è che fintanto chè si facevano le pulci agli avversari politici tutto andava bene e che quando si è cercata la polvere sotto il tappeto di casa propria sono scattati i consueti meccanismi di negazione e di esclusione
La sensazione dunque è quella che sull’altare del continuismo governativo, malattia che non colpisce solo il PD, si sia persa l’occasione per dimostrare che tra destra e sinistra permangono delle differenze di fatto a partire da una diversa sensibilità per quanto riguarda la trasparenza dell’azione politica
La fase attuale delle riaperture delle attività economiche
Il nostro paese ha ieri preso la decisione di “aprire” a partire dal 26 aprile una serie di attività finora precluse per ragioni di eccessiva diffusione del contagio. Sappiamo che i dati pur incoraggianti (media dei nuovi casi scesi a 15.000; indice RT a 0,82; occupazione di posti letto di terapia intensiva e ordinari sotto il 37%) si accompagnano ad altri di segno opposto (numero di decessi costantemente sopra i 300; incidenza di nuovi casi di 182/100.00 abitanti) e che quindi è difficile prevedere se con la riapertura l’epidemia troverà nuovo carburante e riprenderà forza.
A favore di questa prospettiva più pessimistica si sono espresse sia le O.S. dei medici (chiamati eroi ma mai tenuti in considerazione nel momento decisionale) e illustri professionisti del settore come i Prof Crisanti e Galli, ma è altrettanto vero che il paese non è più nel mood di tollerare un prolungarsi di misure restrittive. E una riprova di questo si è avuto nei dati sulla disoccupazione, sul drammatico incremento dei nuovi poveri e degli scontri di piazza che non possono essere ridotti solo alla presenza all’interno delle manifestazioni di provocatori notoriamente di estrema destra
Non c’è dubbio che il paese è stanco e che delle misure di liberalizzazioni non possono essere ulteriormente disattese; rimane però il problema se nel frattempo, aldilà della campagna vaccinale che sta dando i suoi frutti, il governo e le regioni abbiano assunto le necessarie misure di contenimento del rischio
La mancanza di una pianificazione delle misure di contenimento
Nella prospettiva di Beck abbiamo visto come l’anticipazione del disastro, pur mettendo in crisi le più incrollabili certezze, offre tuttavia la possibilità di produrre cambiamenti significativi, innescando energie nuove in grado di prevenire gli eventi e contenere il danno
Questa politica (contenimento del danno e di abbattimento del rischio) non sembra tuttavia essere ancora entrata nelle strategie del governo; sappiamo per esempio che il rischio insito nella riapertura delle scuole (una delle necessità improcrastinabili) non è tanto nelle condizioni indoor, se si rispettano le dovute distanze tra gli studenti, ma nel sovraffollamento delle classi e nella fase dei trasporti e della post-attività scolastica. Su questi punti nessun piano è stato elaborato e le domande già poste restano sempre senza risposte: perché non prevedere doppi turni? Perché non utilizzare il trasporto privato, che già è stato coinvolto nelle nostre città, per lo spostamento selettivo degli studenti?
E ancora prima perché non è stata avviata nessuna indagine epidemiologica degna di questo nome per quantificare in modo scientifico il reale rischio connesso alle lezioni in presenza? E subito dopo perché non predisporre, almeno su un campione di scuole, l’uso di tamponi orali per la ricerca del virus al fine di monitorare modalità, entità di trasmissione e eventuale ripresa dei contagi?
Dal punto di vista sanitario invece è ormai assodato e da tutti condiviso come il punto di caduta del servizio sanitario sia stata la disorganizzazione delle cure territoriali e la mancanza di strumenti idonei per affrontare il contagio da parte dei medici di famiglia. Cosa è stato fatto su questo aspetto, in cui la responsabilità dello Stato e del ministero della Salute è decisiva? Ricordiamo infatti che in tema di epidemie le competenze previste dalla legge 833/21978 e dal Titolo V della novellata Costituzione (art 117) sono esclusivamente in capo allo stato centrale. Anche in questo campo purtroppo ben poco è stato fatto e ancora oggi le unità di cure domiciliari chiamate USCA (istituite dal governo giallo rosso per affrontare l’emergenza sul territorio) restano un miraggio per una evidente incapacità, da parte del Ministero della salute, di programmare tali interventi su tutto il territorio nazionale e di chiederne conto alle regioni
Questo deficit nella capacità di mobilitazione di tutte le energie intellettuali per sconfiggere l’epidemia è il vero punto debole dei governi succeditisi nell’ultima legislatura e il governo Draghi è nato per sopperire a queste carenze oggettive che nulla hanno a che vedere con i complotti della spectre dei poteri forti preconizzati da Goffredo Bettini. Questo e solo questo è il terreno su cui sarà giudicato il governo Draghi, un governo emergenziale e di unità nazionale nato per affrontare e risolvere problemi che gli altri avevano lasciati insoluti.
Non è ancora il tempo per redigere il saldo finale ma certo è che a metà maggio inoltrato si saprà se il paese è uscito dall’emergenza o in essa è nuovamente e tragicamente ripiombato e allora saranno evidenti meriti e demeriti di chi sta attualmente governando per portarci fuori dal guado. Di certo tuttavia l’attuale governo ha segnato una discontinuità ma con altrettanta franchezza non sembra ancora in grado di valorizzare al meglio quelle risorse di cui fortunatamente ancora il paese dispone.
Roberto Polillo