l blocco dei licenziamenti terminerà. Non subito perché siamo ancora nel pieno della pandemia, ma in tempi non lunghissimi. Si distinguerà tra settori e aziende, per non tenere in piedi centri di produzione che da soli non riescono a sopravvivere e dare linfa nuova a quelle che possono resistere sul mercato. Come sempre in casi di crisi gravi la selezione sarà fortissima, ma lascerà un tessuto produttivo più forte, più capace di reggere la concorrenza nei momenti di difficoltà. Per chi perderà il posto sarà naturalmente un colpo durissimo, perché in tempi di crisi non si aprono molte possibilità di lavoro e perché a trovarsi per strada sarà per lo più chi è meno appetibile sul mercato, chi non ha una formazione o quanto meno non ha aggiornato la sua formazione, risultando così superfluo per le imprese. E sarà proprio su questo che si misurerà la capacità di Mario Draghi, perché sul fronte del lavoro quello che manca è proprio un aiuto a chi lo perde. Storicamente in Italia si è prestato aiuto a chi si ritrovava disoccupato, per lo più in termini di sussidi. La cassa integrazione ha rappresentato un supporto importante, apprezzata anche perché consentiva alle imprese in difficoltà non insormontabili di superare l’onda di piena senza perdere le maestranze più qualificate, quelle che al momento della ripartenza avrebbero dato un apporto significativo in termini di produttività.
Tutto questo però è finito: la cassa integrazione è sempre importante, ma il legame tra impresa e lavoratore non è più lo stesso, non è saldo come un tempo. Il grande cambiamento del Job Act di Matteo Renzi consisteva proprio in questo, dava meno saldezza al rapporto di lavoro, ma metteva (o avrebbe dovuto mettere) il lavoratore in grado di trovare un nuovo posto di lavoro. Tutti gli studi affermavano che un lavoratore avrebbe dovuto subire almeno sette cambiamenti nella sua vita professionale, e dunque era giusto aiutarlo in questa sua nuova vita. Tutto bene, solo che le politiche attive del lavoro, appunto l’aiuto che il lavoratore avrebbe avuto nel corso della sua frastagliata vita professionale, non sono mai decollate. Il miracolo del nuovo governo, che ha ereditato una situazione esplosiva dopo il blocco per un anno dei licenziamenti, sarà quello di dover riuscire laddove tutti hanno fallito prima di lui.
Non sarà facile, perché mancano i piani, mancano gli uomini, manca l’organizzazione che è invece indispensabile. Matteo Renzi ha fallito perché ha perso il referendum sulla riforma costituzionale che tra l’altro avrebbe trasferito dalle regioni allo Stato una serie di competenze, tra cui la base delle politiche attive del lavoro, soprattutto quelle relative alla formazione professionale, rimaste invece di competenza con le regioni. Una disdetta, ma questo non attenua le responsabilità e soprattutto l’urgenza di risistemare tutta la partita. Per quanto difficile, Draghi e il suo governo devono riaprire il dossier e trovare una soluzione.
Il punto vero saranno le competenze. Perché almeno metà, a essere buoni, delle regioni non sono in grado di svolgere politiche attive del lavoro. La situazione è molto variegata, ci sono anche casi di eccellenza, ma sono pochi e per lo più lasciano fuori tutto il Sud e molto del centro Italia. E’ un fatto spesso anche solo di numeri. Si favoleggia tanto sull’efficienza dei servizi al lavoro della Germania, dimenticando che i funzionari tedeschi che lavorano nei centri dell’impiego sono dieci volte quelli italiani, 80mila contro 8mila. Una battaglia impari. E poi, anche dove le cose marciano manca, se non la capacità tecnica, la determinazione a intervenire. Nessun funzionario pubblico vuole assumersi la responsabilità dei compiti amministrativi che è chiamato a svolgere. Il pericolo di un intervento della Corte dei conti, pronta a riscontrare l’ipotesi di un danno erariale se si è commesso un errore, è reale e nessuno lo sottovaluta. I funzionari temono di non essere all’altezza del loro compito e dunque di essere pesantemente colpiti per questa deficienza. Solo che così tutto il sistema è bloccato.
Ancora, pesa la mancanza di chiarezza sui confini delle competenze. Formalmente la formazione rientra interamente nelle competenze delle regioni, mentre per i servizi al lavoro si tratterebbe di competenze concorrenti: nel senso che lo Stato dovrebbe intervenire nel caso in cui le regioni non forniscano i servizi che sono chiamate a dare. Questo però non sempre accade, anzi di solito non avviene per una serie di ragioni, soprattutto perché sono fortissime le resistenze delle regioni a cedere parte di quelle che considerano loro esclusive competenze. Abbiamo assistito tutti, in tempi di pandemia, alle prove di forza tra regioni e Stato sul terreno della sanità, ma sul piano delle politiche attive del lavoro la contrapposizione non è da meno, le resistenze sono altrettanto forti. Con il risultato che è possibile immaginare.
Il governo è quindi atteso a una difficile prova, tanto più delicata perché sono in gioco le vite di tante persone. La formazione, soprattutto, sembra la cosa più importante. Perché tutto il sistema si arresta di fronte all’obsolescenza delle competenze professionali dei lavoratori. Lo hanno capito bene le forze sociali, tanto è vero che i nuovi contratti collettivi di lavoro hanno cominciato a prevedere anche la formazione per tutti i lavoratori, per rafforzare non solo le competenze che servano all’azienda, ma soprattutto quelle necessarie per mettere, un domani, i lavoratori in grado di presentarsi sul mercato del lavoro con qualche chance di successo. Ma naturalmente questo impegno, per quanto importante, non è sufficiente. Nel corso degli anni sono stati tentati tanti esperimenti, sono state battute tante vie, ma senza successi significativi. Pesa, a quel che ritengono i tecnici, il fatto che le imprese non siano sufficientemente dentro il meccanismo formativo. Non è un caso se si moltiplicano i casi di skill gap, la distorsione per cui i lavoratori non trovano lavoro, ma parallelamente le imprese non trovano i lavoratori formati che servono. I corsi di formazione vanno costruiti sulle esigenze delle imprese, non sulla base dei desideri dei lavoratori. Se le due cose non combinano si trovano lavoratori disoccupati e aziende che non coprono le commesse perché non si è in grado di assicurare le consegne. Qualcosa si è fatto con le iniziative di scuola-lavoro, molto positive per chi vi ha partecipato, perché le assunzioni sono state altissime, ma i numeri sono rimasti molto, troppo bassi. Non è un caso del resto se ha funzionato molto bene l’esperienza degli ITS, gli istituti tecnici superiori, perché gestiti da fondazioni al cui interno ci sono anche le imprese, che riescono così a imprimere le direzioni più opportune all’organizzazione di questi istituti. Ma si è sempre di fronte a numeri esigui, l’impegno dovrebbe essere ben più vasto.
Massimo Mascini