Forse è bene che, finalmente, i sociologi e gli psicologi del lavoro, prima ancora dei giuslavoristi e dei…sindacalisti, rileggano con occhiali nuovi la problematica del lavoro per come si sta ulteriormente evolvendo. Negli anni dell’industrialismo di massa il loro contributo è stato decisivo per cogliere gli aspetti immateriali dell’alienazione. Contributo che ha dato vita, ad esempio, a tutta la tematica dell’ambiente, diventata questione identitaria delle battaglie per l’emancipazione e, di conseguenza, filone autonomo e, spesso, prioritario, dell’azione negoziale del sindacato.
Oggi, però, il passaggio dal fordismo al post fordismo, pur ricco di studi, è ancora segnato da una lettura delle caratteristiche della sua prima fase, pur essa pionieristica, ma, per molti versi arretrata rispetto alla rapidità con la quale evolvono i processi organizzativi. Da un lato, cioè, si esasperano gli aspetti positivi, di “nuova libertà”, di liberazione individuale dai vincoli spersonalizzanti del taylorismo (la catena di montaggio, per tutti!) di cui godrebbe il lavoratore. Argomento che serve, anche, per fare da contrappeso (reale o propagandistico) alla eccessiva diffusione della precarietà (le partite iva!). Dall’altro si esaltano gli aspetti negativi del processo, ovvero le “nuove alienazioni”, che derivano dalle nuove forme di organizzazione del lavoro.
La tecnologia informatica applicata all’automazione ha provocato, in maniera diffusa, una minore parcellizzazione delle mansioni individuali rispetto a quella rappresentata dalla mansione in catena. Ha, però, comportato una nuova e più grandiosa parcellizzazione: quella relativa alla scomposizione del ciclo produttivo, che ha dato vita ai fenomeni decisivi dell’outsourging, delle esternalizzazioni, del decentramento, delle delocalizzazioni. Decisivi perché sono questi le cause originarie della anomala esplosione del mercato del lavoro che comporta il proliferare dei contratti e produce il precariato. Il cui volto preoccupante non è dato solo dalla durata temporale dei rapporti di lavoro, ma, anche, dall’ utilizzo del tutto improprio delle professionalità (clamoroso resta ancora il ricorso al contratto di progetto – l’ex co.co.co – per fare il fattorino o…il centralinista!).
Questa dicotomia interpretativa, dove o tutto è bene, o tutto è male, con la quale si tende ancora ad affrontare il post fordismo, è tipica di tutti gli approcci di studio o di discussione, troppo contigui con la immediatezza della condizione materiale e, dunque, con i conflitti sociali e politici. Si ricorderà il motto berlusconiano “tutti imprenditori”, ma, anche, al contrario, la macabra rappresentazione inscenata, più volte, ahimè anche nel sindacato, da lavoratori precari fatti intervenire nei congressi col volto incappucciato.
Con questa visione manichea si finisce per non vedere (o non voler vedere) e non cogliere i flussi profondi, ma reali, degli aspetti evolutivi della società e della condizione di lavoro.
Il call center è stato, nel corso di questi anni il testimonial più clamoroso di questa trasformazione e di questa lettura senza appelli. Da luogo della liberazione dalla schiavitù della fabbrica ed opportunità di lavoro, a inferno professionale e sociale, paragonato allo schiavismo industriale ottocentesco. Luogo simbolo, dunque, dell’approccio ideologico con il quale si affronta la storia contemporanea del lavoro.
Il merito dell’inchiesta condotta da Il diario del lavoro è, invece, quello di consentirci, finalmente, una lettura…”laica” di questa realtà, dove a “narrare” questo mondo sono direttamente i lavoratori, gli operatori e non i loro cantori. E, come sempre succede, nella fase matura delle rappresentazioni storiche, quando, cioè, la voce passa ai protagonisti, la storia stessa diventa realtà e non solo rappresentazione; sicché si colora di intensità, ma, anche di sfumature, di toni e di semi toni. In tal senso, dall’inchiesta emerge una fase due della vita dei call center, molto più matura e strutturata di quella iniziale che tanto ha dato da discutere .
Sono tre gli aspetti che l’inchiesta mette in luce e sui quali vale la pena soffermarsi, in quanto definiscono molto bene, proprio in questa nuova fase, meglio di quella di avvio, le contraddizioni e le opportunità del post fordismo, riconfermando queste realtà come luoghi simbolo, cult, del lavoro contemporaneo.
Il primo di questi aspetti consiste nella presa di coscienza professionale dei giovani operatori del loro ruolo. Traspare, in una parte importante degli intervistati, una sorta di orgoglio di appartenere al sistema dei call center, sostenuto da una spiccata identità professionale. Significativo è, a questo proposito, il confronto che viene fatto col gli uomini del marketing che studiano il cliente a tavolino a differenza dei protagonisti dell’inchiesta che lo conoscono personalmente, tanto da poter giudicare in anticipo il successo o meno delle scelte aziendali sui nuovi prodotti. Alcune aziende hanno capito ciò e non considerano più i call center come dei terminali anonimi, deresponsabilizzati e sotto professionalizzati, ma come veri e propri veicoli di comunicazione interattiva col cliente.
Certo questo avviene perché, come riferiscono gli addetti, anche il cliente si è evoluto. Non è più “imbranato”, ma sciolto nella gestione della comunicazione. Semmai, in taluni casi, da cliente tende a diventare “amico”, o almeno un conoscente. Infatti si cerca di conoscerlo per quello che è e che vuole, perché vendere è qualcosa in più che … piazzare un prodotto.
Emerge da questa inchiesta, dunque, una nuova dimensione del rapporto prodotto-mercato e, potremo dire, una nuova strumentazione di vendita e pubblicitaria che appare in grado di assolvere pienamente al compito assegnato.
Il punto da sottolineare è la progressiva scoperta che questa missione può essere assolta al meglio solo in una dimensione di soddisfazione non solo del cliente, ma anche del venditore. Può sembrare ovvio, ma non è stato per niente scontato.
Se questa realtà si afferma, l’approccio culturale e sindacale verso gli operatori di call center deve cambiare. Non si tratta di negare le diffuse condizioni di sfruttamento che ancora vi sono, né di chiudere un occhio davanti all’uso qualche volta immorale che si fa, attraverso ricatti occupazionali, della professionalità degli operatori per rifilare bidoni ai clienti, ma di valorizzare e stimolare la coscienza individuale e collettiva di questa categoria professionale attraverso il riconoscimento, agli addetti ai call center, della loro dignità di lavoratori e professionisti, non solo quando essa viene loro negata, ma anche quando essa c’è, presente e viva, nella storia aziendale che stanno vivendo.
Dal riconoscimento dei passi in avanti, dei successi ottenuti, ne viene anche un supporto innegabile alla autostima, che è, peraltro, non solo la prima condizione per difendere e migliorare e combattere i soprusi, ma la condizione necessaria per affermare la cittadinanza.
Il secondo aspetto consiste nella dimostrazione pratica di quanto ora affermato, in particolare della teoria per la quale dignità e produttività vanno insieme. Si tratta di un rovesciamento dello schema tradizionale e consolidato di lettura della condizione di lavoro nei call center, ma anche del normale concetto di produttività applicato nelle industrie tradizionali. Dall’inchiesta, infatti, appare prendere corpo una tesi secondo la quale, sia per l’impresa che per il lavoratore è meglio il part time che il tempo pieno, ma anche è meglio il tempo indeterminato che l’interinale.
Il part time contiene, entro limiti personalmente ed aziendalmente accettabili, lo stress di un lavoro comunque sfibrante e rende più efficiente il servizio (e questo è proprio post fordismo!). Il lavoro stabile, dal canto suo, consente un accumulo di conoscenze personali che avvicinano il cliente, forse anche lo manipolano. Caratteristiche professionali che, però, l’interinale non possiede.
In qualche modo, questo approccio può costituire un terreno fondativo per l’affermarsi di nuove teorie delle relazioni sociali.
Tant’è che l’esito di questa impostazione è clamoroso. Come dice l’inchiesta: “Sino a qualche anno fa nessuno avrebbe pensato di passare tutta la sua vita in un call center, ora la prospettiva e cambiata”. Il call center può offrire, allora, non solo un lavoro stabile, ma anche definitivo! Il lavoratore del call center non si è soltanto tolto il cappuccio, ma tiene la fronte alta e guarda lontano.
Vi è, infine, il terzo aspetto che riguarda il contesto. Non è tutto oro quel che luccica. Anche l’inchiesta lo dice. Il temine lager affiora nella testimonianza di un lavoratore, proprio ad indicare che il passaggio alla modernità è ancora da venire.
Il mondo del lavoro vive tutta intera questa contraddizione. Si avvertono nitidi i segnali del cambiamento nelle relazioni di lavoro.
Il più rilevante è, certamente, la nuova dimensione dei rapporti individuali in alternativa o a complemento di quelli collettivi. Negli scorsi decenni la dimensione dei rapporti è stata esclusivamente collettiva, sino ad un eccesso di massificazione spersonalizzante. Anche questo era il portato del fordismo. Il singolo non esisteva, perché il lavoro era massificato, uguale e ripetitivo.
Con la crisi della ideologia classista e dell’organizzazione del lavoro taylorista, ha preso spazio la dimensione individuale, sino a raggiungere un estremo ideologico opposto: l’esaltazione dell’individualismo. La risposta, cioè, alla emancipazione starebbe nella ricerca personale (e fin qui ci siamo) delle soluzioni ai problemi che si incontrano nella vita privata e professionale.
L’equivoco però c’è: nel senso che si presuppone una sorta di parità di condizioni per partecipare alla gara che non corrisponde alla realtà dei fatti. Sicché, si ipotizza, parlando del mondo del lavoro, che ci sia una presunta parità nei rapporti di forza tra il singolo lavoratore e il datore di lavoro. Un mondo idilliaco, nel quale l’imprenditore è pensato come privo di pulsioni negative, non abusa del rapporto di lavoro, non sfrutta, non tira sui costi e il lavoratore, di conseguenza, è salvaguardato in sé e, dunque, trova da solo le sue tutele e le sue soddisfazioni.
Si tratta di un ritratto che ho volutamente forzato, ma che cosa è la proposta del contratto individuale se non questo? Che cosa ispira la filosofia del governo (quello in buona fede) se non questa idea astrattamente “amichevole” dei rapporti sociali?
Che ci fosse bisogno di liberare il mondo del lavoro dalla morsa massificante e dare spazio alla soggettività è ben chiaro e molta strada è ancora da fare. Ma che si arrivi all’ipocrisia, cosciente o meno, di concepire, tra singoli, una parità di relazioni è, francamente, impressionante. Rappresenta una pericolosa alterazione della realtà. Peraltro, va ricordato, che solo una solida prospettiva partecipativa, fatta di regole, buone pratiche e sistemi di verifica, può consentirci di dare alla valorizzazione della persona un orizzonte praticabile verso un giusto equilibrio tra libertà e tutele.
Il punto è che la esaltazione acritica dell’individualismo finisce per produrre un nuovo, ma altrettanto, se non peggiore, egualitarismo, secondo il quale si è talmente uguali che ciascuno può stare da solo di fronte al mercato. La lezione di don Milani, che ci ricorda che a fare parti uguali tra diseguali si commette una ingiustizia resta valida anche nel nostro campo di ragionamento.
A me sembra, dunque, che il grande irrisolto tema del post fordismo sia quale equilibrio trovare tra la possibilità, da perseguire, di affermare la persona, nella sua specificità, come soggetto attivo del lavoro e la esigenza di comprendere questo processo dentro un sistema di opportunità, di regole, di tutele, di diritti e di doveri che non ne vanifichino l’obiettivo, finendo per costringerlo, in assenza di questo contesto collettivo e partecipativo, in una competizione individualistica, sempre perdente per il più debole.
Se questa è la sfida della contemporaneità, dobbiamo riconoscere che ci sono luoghi nei quali essa si gioca con più pregnanza.
Perché i call center sono uno di questi luoghi? Perché, come ben si comprende dall’inchiesta e come sappiamo dalla conoscenza diretta, qui si concentrano proprio le condizioni-contraddizioni di cui stiamo parlando. Da un lato un lavoro ripetitivo e potenzialmente deresponsabilizzante, ma dall’altro reso, ogni volta unico dal rapporto diretto, personale, ogni volta diverso, con l’interlocutore che chiama o viene chiamato e, perciò, un lavoro gravato di responsabilità professionali e, direi, sociali. Da un lato un lavoro che rischia un basso contenuto di professionalità materiale e tecnica, ma dall’altro che necessita di una spiccata sensibilità alle relazioni e, in quest’ottica, di tecniche professionali raffinate. Si pensi al ruolo fondamentale che assume la formazione di questi originali…telefonisti.
L’elenco delle ambivalenze è lungo, ma quanto detto è sufficiente per comprendere come sia necessario sviluppare una attenzione particolare per i laboratori del futuro lavorativo. Personalmente penso che tutti le postazioni che implicano un confronto con il pubblico, il cittadino, il consumatore hanno possiedono queste caratteristiche.
Per questo, come ho detto all’inizio, c’è da sperare che gli esperti, ma non solo, anche i sindacalisti, gli imprenditori, i consumatori e i politici, si occupino di queste realtà, così attuali e simboliche, con lo stesso approccio offertoci dall’inchiesta giornalistica de Il Diario del lavoro, perché è davvero arrivato il momento di ricostruire senza schematismi fuorvianti la dimensione personale e professionale di questi lavoratori, di analizzare con intelligenza il contesto nel quale lavorano, per riconoscere la complessa umanità che, finalmente, appare da dietro il filo.
Pier Paolo Baretta, deputato Pd