“Persino quando vorrebbero innovare fanno proposte capaci di dare voce alla protesta degli interessi di oggi, ma non capaci di interpretare il vero movimento della storia, italiana ed europea”, questa frase di Giuseppe Dossetti, uno dei padri costituenti, sembra scritta oggi ed invece va collocata indietro nel passato, pur conservando il valore di un ammonimento molto attuale.
L’economia italiana, malgrado le tante avversità di questa stagione difficile, ancora una volta dimostra di avere la forza per rialzarsi. Di recente la Banca d’Italia ha rialzato le stie del Pil per il 2021 che sfiorano il 5%. Più o meno in sintonia con le previsioni che vanno per la maggiore. Un effetto importante viene attribuito, come era scontato, al piano collegato alle risorse europee che potrebbe valere due punti di Pil nel prossimo futuro. Ma anche in questo caso c’è un monito da tenere presente: “…le stime presuppongono che non vi siano significativi ritardi nell’implementazione dei progetti del Pnrr e degli investimenti pubblici che indebolirebbero la ripresa…”. E’ giunto quindi il momento per la politica, come pure per il Paese di non perdersi sui posizionamenti dell’oggi ma di guardare avanti con determinazione e chiarezza di obiettivi.
Le difficoltà nel riprendersi non sono del resto solo italiane. Lo dimostra l’andamento negativo nei primi tre mesi dell’anno del Pil tedesco con una flessione dell’1,8% rispetto all’ultimo trimestre del 2020, un segnale che non va sottovalutato se pensiamo a quanto la produzione tedesca sia connessa a quella italiana, soprattutto nel nord del Paese.
E fa impressione leggere che in quel caso gli investimenti si rivelano essere “piatti”. Inutile sottolinearlo, la chiave di volta sta nella tempestività ed incisività degli investimenti soprattutto pubblici.
Si tratta evidentemente di uno sforzo che avrà il suo epicentro negli interventi infrastrutturali, ma con conseguenze importanti sulla produzione e sui consumi se esso verrà considerato come un impegno di tutto un Paese che vuole risalire la china ed ha bisogno di una forte spinta comune per ritrovare un percorso di crescita non effimero. Il ruolo del governo e della politica è dunque chiamato ad una prova che non dovrebbe ammettere fallimenti. Anche se la situazione reale non può non provocare dubbi vista la scarsa qualità del confronto politico in atto.
Cresce di conseguenza la responsabilità delle forze sociali in questa fase che davvero può essere sul piano economico e sociale di svolta, pandemia e vaccinazioni permettendo.
Punti di riferimento ci sono: la nostra produzione nel trimestre febbraio-aprile è cresciuta dell’1,9% e siamo ormai ad un trend positivo di cinque mesi che se sostenuto adeguatamente può continuare anche con maggiore vivacità ed estensione. Questa osservazione si avvale infatti del fortissimo aumento registrato nella produzione di beni strumentali (+119%) come pure die beni intermedi (+98%). Così come alcuni settori in sofferenza da mesi, vedi il tessile, mostrano evidenti segnali di ripresa. Più che i confronti colpisce uno degli aspetti decisivi per uscire dalla crisi: la volontà di ripartenza che ha combattuto efficacemente ogni tentazione di gettare la spugna. A questa volontà di ripartenza vanno date risposte rapide ed efficaci, indicando prospettive che siano in grado di conservare e rafforzare la tendenza a risollevarsi. Ed in questo senso è fondamentale giungere a soluzioni che sul piano occupazionale tengano conto del disagio sociale esistente e vasto. Occorre fare i conti, insomma, con il sovrapporsi di una sacrosanta politica di sostegno contro la disoccupazione e di un precedente assistenzialismo che ad esempio non ha permesso di attuare politiche attive per il lavoro che sarebbero invece state essenziali. Si pensi solo al paradosso secondo il quale si temono migliaia di licenziamenti ma al tempo stesso non si trovano lavoratori da impiegare in alcuni settori. La mancanza di formazione e di incentivi ad essa non spiega tutto il fenomeno perché non si può non tener conto dei limiti mostrati dalla applicazione del reddito di cittadinanza che può perfino invogliare a rifiutare lavori che in realtà premiano meno del reddito la cui copertura invece può favorire lavoro irregolare o nero.
Ma la mancanza di figure professionali nei diversi comparti economici non si può risolvere solo con modifiche sostanziali alla legge sul reddito di cittadinanza. Occorre che si affronti in modo nuovo il rapporto scuola-lavoro ed il problema quello non meno importante di un sistema di formazione permanente.
Anche perché gli intoppi della globalizzazione, mostrati di recente dalle politiche dei dazi e delle limitazioni della circolazione delle merci nel mondo, probabilmente suggerirebbero in non pochi casi un utile “ritorno a casa” di produzioni che da anni sono svolte all’estero. Ma sarebbe necessario preparare il terreno sul piano fiscale, su quello degli sbocchi di mercato, su quello della giustizia, su quello infrastrutturale. Rafforzando da noi il valore della ricerca per farla diventare uno dei motivi più appetibili per il rientro di attività produttive perdute. La crisi dell’occupazione potrebbe avvalersi anche di questa propensione a produrre in Italia, tenendo conto che nel frattempo ristrutturazioni, tecnologie e razionalizzazione internazionale della produzione hanno ristretto opportunità di impiego, sia pure elevando la produttività.
Abbiamo di fronte a noi una serie di sfide di grande portata. Molte sono intrecciate fra di loro e vanno risolte nel nostro Paese. Altre dipendono dal futuro dell’Europa e dei complicati rapporti internazionali. Forse anche in questo caso c’è lavoro per tutti, anche per il sindacato che sul piano europeo può non solo porre la questione fondamentale dei diritti e della dignità del lavoro, ma quella connessa di una Europa sociale da ritrovare nella opera inevitabile di modifica delle regole “sospese”, ma che non potranno essere riesumate nei prossimi anni sena profondi cambiamenti.
Paolo Pirani