Di tutto si parla tranne che della riforma incompiuta del terzo settore legge 106/2016 introdotta oltre 3 anni fa e ancora in via di sviluppo dei decreti attuativi. Il processo della riforma è destinato ancora per molto a rimanere aperto in quanto comporta un profondo mutamento del mondo associativo ,del sistema di welfare pubblico, e delle nuove forme di rappresentanza soprattutto a livello territoriale. La riforma comporta un cambiamento epocale dei soggetti medio grandi dotati di solide risorse professionali,organizzative ed economiche con capacità di comunicazione verso i cittadini e legami con il mondo affiliato del no profit e i livelli locali per l’esternalizzazione dei servizi di welfare. Ma il rischio e lo stiamo vedendo,è quello di inghiottire il mondo dell’associazionismo del volontariato più piccolo che non ha le stesse risorse di quello di dimensioni maggiori che ha una sua connotazione molto trasversale tra civica,volontaria,imprenditoriale.
L’impresa sociale rappresenta un modello economico alternativo con un grande potenziale di innovazione sociale e una soluzione, unica nel suo genere, per la costruzione di partenariati tra diversi soggetti mettendo l’economia al servizio della comunità. Ma la riforma del Terzo settore ha evidenziato criticità che devono essere emendate perché un definitivo correttivo del Codice del Terzo settore(CTS) prolunga una situazione ormai non più sostenibile di incertezza normativa – sul piano fiscale e civilistico – e organizzativa che complica e, in alcuni casi, rischia di compromettere l’opera di 11 milioni di soci e volontari impegnati in oltre 300.000 organizzazioni di volontariato e di promozione sociale operanti nelle nostre comunità. Tutte queste associazioni sono tenute a modificare i propri statuti sociali e a ridefinire aspetti determinanti della loro attività, fino al cambiamento della stessa qualifica giuridica. Il cambiamento concreto non può essere effettuato in presenza di un dato normativo incompleto e instabile passibile di ulteriori modifiche. Certezze normative, fiscali e civilistiche sono peraltro indispensabili anche per sbloccare la costituzione di nuovi soggetti fermi nell’attesa che si definisca un quadro normativo certo.
La rete del Terzo Settore è molto varia e ha differenti vocazioni e caratteristiche e spesso non ha una inclinazione imprenditoriale, commerciale e aziendalistica. I portatori di bisogni si rivolgono a differenti strutture che insistono preferibilmente sul territorio e hanno antiche e straordinarie relazioni con la cittadinanza attiva e le culture ispirative radicate. Dunque, molto diverse tra loro e soprattutto dalle forme associative che sono già ben organizzate e hanno una mission diversa e complementare. In sostanza raccordare tutte le varie forme sotto lo stesso ombrello definendole Terzo Settore significa raccogliere soggetti collettivi differenti: quelli associativi, volontari, imprenditoriali e professionali in modo che si contaminino mantenendo vive però l’organizzazione mista cioè capaci di fare servizi e azioni ispirate da vocazioni seguendo le loro attitudini. E dunque deve essere una strategia straordinaria di promozione dei processi di trasformazione e integrazione lavorando differentemente sui vari territori facilitando e accompagnando questo processo in relazione al nuovo quadro sociale ed economico.
La sfida dunque in mano al ministero del Lavoro e delle politiche sociali insieme alla presidenza del consiglio sul monitoraggio dei decreti applicativi e deve essere messa nelle mani non di tecnici e funzionari che controllino l’applicazione burocratica ma a coordinamenti territoriali che sottoscrivano l’impegno e si assumano la responsabilità di portare a termine una visione strategica concreta di politica sociale innovativa. Anche perché uno degli impegni assunti dall’attuale Governo è quello di ridistribuire le risorse delle politiche a sostegno dell’integrazione tra organizzazioni pubbliche e private per razionalizzare la spesa in favore delle categorie più deboli.
Alessandra Servidori