Se c’è uno strumento indispensabile per affrontare il post covid, questo è la riforma degli ammortizzatori sociali. Era stato il primo impegno preso dal ministro del Lavoro Orlando appena entrato in carica, infatti: tuttavia, per un motivo o per l’altro, ancora non se ne vede traccia. Il ministro nei giorni scorsi ha annunciato – con una intervista- che a luglio farà una proposta. Ma i tempi sono sempre più stretti. Non solo perché incombe la scadenza del blocco dei licenziamenti, ma anche perché una riforma così impegnativa richiede tempi lunghi per trovare l’accordo di tutti, essere messa a punto, andare a regime. E luglio, anche se fosse, è già molto tardi.
L’orientamento stesso del governo non è ancora chiaro. Nelle centrali sindacali si dichiarano ignari: nessuno, a quanto pare, ha contezza dell’esistenza di una traccia, una bozza, di quello che dovrebbe essere un piano organico di revisione del sistema degli ammortizzatori sociali. Certo, se ne conoscono i titoli: ma il problema, spiegano gli addetti ai lavori, è che quando dai titoli si passa ai contenuti si aprono mondi inesplorati e irti di contraddizioni. Tuttavia, nemmeno Cgil, Cisl e Uil hanno una loro proposta da presentare come traccia per la riforma. Gli unici ad averne una, o almeno a dichiarare di averla, sono gli imprenditori: Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, parla spessissimo della “proposta di riforma organica” sugli ammortizzatori inviata un anno fa a sindacati e governo; ma a parte che, nel frattempo, il governo è radicalmente cambiato, resta che anche di questa bozza confindustriale si conoscono più gli annunci che i contenuti.
Lo stesso concetto di ammortizzatore universale, quello su cui si starebbe lavorando, non convince tutti. Il rischio, secondo alcuni, è che al dunque si scopra che non è possibile tenere sotto lo stesso ombrello proprio tutti: i precari e gli stabilizzati, le piccole imprese e le grandi, il nord e il sud, eccetera. Non è nemmeno chiarissimo se l’obiettivo finale della riforma sia più quello di favorire le uscite dal lavoro, attutendone gli effetti, o la re-immissione nel circuito lavorativo dei disoccupati, o entrambe, e in che modo. Come è noto, le famose politiche attive del lavoro non hanno mai avuto fortuna nel nostro paese, sia sul versante pubblico dei centri per l’impiego, sia su quello delle agenzie private. Difficile immaginare che in un paio di mesi si risolva un problema vecchio di decenni, così come quello, altrettanto antico, degli ammortizzatori sociali.
Anche da questa generale incertezza, da questa mancanza di bussola, nasce la posizione statica dei sindacati, quel limitarsi a dire ”no ai licenziamenti”. In mancanza di idee, meglio tenere ferme le bocce. Dunque, è probabile che alla fine la grande riforma sarà solo un problema di risorse: cioè di quanto il governo sarà in grado di stanziare per rifinanziare il sistema degli attuali ammortizzatori, senza cambiare granchè. Si torna così al tema licenziamenti. Anche qui, profonda incertezza sui numeri che potrebbero derivare dallo scongelamento del blocco. Grandi imprese che abbiano proceduto a licenziamenti di massa non se ne vedono da anni, le uscite ci sono state, certo, ma in modo soft, ricorrendo a strumenti che evitino conflitti sociali. Stessi strumenti, ampliati, si sta cercando di mettere in campo oggi, per affrontare la grande incognita che sarà il mercato del lavoro post covid. I dati, e’ vero, parlano di una ripresa dell’economia a razzo, o meglio a V come si dice in gergo tecnico: dalle stalle direttamente alle stelle. Chi parla di un prossimo boom economico lo fa confortato dai dati Istat sulla produzione industriale, che corre a manetta. Ed è vero che si partiva dal basso, dalle stalle del lockdown dello scorso anno, appunto, ma è altrettanto vero che le previsioni al rialzo si susseguono, e c’è da pensare che, almeno per un paio di anni, la nostra crescita sarà davvero consistente.
Le conseguenze sul mercato del lavoro, però, sono molto più difficili da prevedere. Per restare nel settore dell’industria ci sono alcuni casi specifici che destano particolare preoccupazione. L’auto, per esempio: le sinergie di Stellantis con Peugeot metteranno a dura prova la sopravvivenza degli stabilimenti italiani, o almeno di alcuni. Per il 15 giugno è atteso l’incontro dell’azienda coi sindacati, e si spera non escano cattive notizie. Intanto, i sindacati dei metalmeccanici si sono portati avanti, appellandosi al governo perché tenga sotto controllo la situazione. C’e poi il settore tessile e calzaturiero, dove sarebbero in ballo tra i 100 mila e i 150 mila esuberi. Nelle scorse settimane i sindacati e le aziende del settore hanno scritto al governo per far presente la drammatica situazione di un comparto praticamente fermo da un anno e mezzo; e che certamente ripartirà, non appena le persone torneranno a una vita normale e riprenderanno ad acquistare abiti e accessori, ma, appunto, ha bisogno dei suoi tempi. Per questo, il tessile dovrebbe essere uno dei settori che potrebbero conservare il blocco dei licenziamenti più a lungo, almeno fino a ottobre, secondo la formula per comparti sulla quale si sta lavorando in parlamento. I sindacati, su questo tema, non si espongono: sarebbero anche favorevoli, ma da un lato non vogliono essere direttamente coinvolti a decidere i sommersi e i salvati, chi sta dentro la rete di protezione e chi viene abbandonato al suo destino; dall’altro vedono comunque i rischi di affidarsi ancora una volta ai famosi codici Ateco che hanno già dimostrato la loro inefficacia. Per questo, alla fine, la soluzione più semplice per Cgil Cisl e Uil è chiedere il blocco generalizzato, lasciando che siano Draghi e Orlando ad assumersi la responsabilità delle scelte.
Ma ci sono anche alcune altre situazioni potenzialmente esplosive dovute non alla pandemia ma a leggi italiane. Una è quella legata al codice degli appalti, all’ articolo 177 che, se applicato, costringerebbe le aziende di servizi pubblici -gas, elettricità, nettezza urbana etc- a esternalizzare l’80% delle loro attività oggetto di concessione, e con esse anche il personale impegnato su tali attività. Nato dall’interpretazione forzata (secondo i sindacati) di una direttiva Ue, e rinviato già tre volte, l’articolo 177 dovrebbe entrare in vigore dal 31 dicembre di quest’anno, destrutturando un servizio essenziale per l’intero Paese e mettendo a rischio decine di migliaia di posti di lavoro: 150 mila secondo i sindacati di categoria, che contro l’articolo 177 hanno già proclamato uno sciopero per il 30 giugno. L’altra spada di Damocle si chiama plastic tax: sempre secondo i sindacati, causerebbe un impennata dei costi per le aziende produttrici, costrette a compensarli riducendo l’occupazione.
E ancora, ci sono le incognite che dipendono dai contesti economici internazionali. Mercati fondamentali come il Brasile e l’India, per dire, sono fermi, e si tratta di mercati dove l’Europa, l’Italia, vendono e comprano. C’e’ il problema delle materie prime, sempre più costose, e di quelle che non si trovano, come i semiconduttori; carenze che stanno rallentando buona parte dell’industria. Ci sono le impennate dei costi logistici: se a luglio 2020 far arrivare in Italia un container dalla Cina costava duemila dollari, oggi siamo a diecimila, denunciano gli imprenditori. Infine, c’è l’inflazione che sta tornando a correre: partendo dagli Usa, dove ha raggiunto i massimi dal 2008, lambisce anche l’Europa, portando con se il rischio di un rialzo dei tassi; per ora scongiurato dalla Bce, ma chi può dire cosa sarà domani. E c’è, soprattutto, l’ombra sempre incombente della pandemia: solo in autunno potremo verificare se grazie ai vaccini è davvero sconfitta o se ci toccherà affrontare una nuova fiammata. Si spera di no, ovviamente, ma anche qui, chi può dirlo? In Uk, per esempio, i contagi riprendono, spinti dalla variante indiana.
Insomma, la ripresa c’è, ma il volo verso l’infinito e oltre rischia di essere interrotto da tante possibili mine che, a oggi, nessuno ancora si e’ chiesto come eventualmente disinnescare. Per questo, tornando alla questione lavoro, non è da escludere che alla fine le decisioni restino sospese ancora per un po’. Con più soldi sulla cassa integrazione, con qualche ritocco qua e la, e con la speranza che qualche mese in più di ”congelamento” dei licenziamenti consenta in autunno di vedere più chiaramente l’orizzonte. Non è detto che sia la soluzione giusta, anzi quasi sicuramente non lo è affatto; ma al momento, a meno che qualcuno abbia un asso nella manica non ancora rivelato, sembra la sola in campo.
Nunzia Penelope