L’Unione Europea ci chiede di riformare la Pubblica Amministrazione. Il governo mette la riforma della PA (mediante digitalizzazione) al primo punto del suo Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Il Forum Disuguaglianze e Diversità ha lanciato un appello (”Proposta, se la PA non è pronta”) articolato in molti capitoli anche condivisibili. Il sindacato rivendica (giustamente) un pacchetto di assunzioni e aumenti retributivi, identificandoli di per sé (meno giustamente) con la riforma della PA. Sembra insomma di vivere la vigilia di una evenienza. A me pare, tuttavia, che non si stia affrontando (né da dentro, né da fuori) il problema centrale dell’anchilosi di cui soffre il sistema amministrativo pubblico italiano. Provo a spiegare perché. Con la premessa che escluderei da queste prime considerazioni la sanità, la scuola, la pubblica sicurezza e il sistema giudiziario perché sarebbero necessarie analisi settoriali più articolate e differenti fra loro: parlare di una generica PA onnicomprensiva non ha senso. Nelle prossime righe mi riferirò quindi essenzialmente all’amministrazione dei ministeri, delle regioni e degli enti locali in tutte le loro articolazioni.
1. Nella PA italiana non c’è la cultura della “presa in carico” dei problemi e/o delle persone (come invece esiste in sanità e, in misura più ridotta, nella scuola), questo il punto da cui partire. Non prevale l’idea che il dipendente pubblico lavora per garantire servizi efficaci e per migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Non dico che non ci sia questa attitudine da parte di molti, ma non è dominante. Nei decenni se ne è imposta un’altra di culture: il dipendente pubblico rappresenta e tutela l’Ente cui appartiene (lo Stato, la Regione, il Comune, ecc.) e garantisce che il cittadino rispetti le leggi, i regolamenti, le procedure previste (e sempre più complicate), le prassi consolidate. Una funzione necessaria ma complementare, non certo la mission della PA.
2. In gergo economicista si dovrebbe dire che l’amministrazione pubblica, dato l’alto grado di monopolio delle proprie attività, è ormai l’unico settore in cui l’offerta di servizi prescinde totalmente dalla domanda. Tant’è che stanno entrando sempre più consulenti privati anche nei servizi tradizionalmente pubblici.
3. Questa cultura dominante (ottocentesca?) non cambierà automaticamente con le nuove assunzioni (seppure indispensabili) e con la formazione (anch’essa tanto più necessaria quanto più fatta sul campo) e nemmeno con la digitalizzazione diffusa (per quanto urgente). Bisogna smontare l’attuale organizzazione del lavoro e rimontarne una più adatta allo scopo. Questo l’obiettivo centrale della riforma, a mio parere: un obiettivo per ora ignorato da tutti.
4. Per organizzazione del lavoro (parola molto usata, anche nel gergo sindacale, ma poco approfondita) intendiamo qui il modello funzionale con cui si impiegano e si combinano le competenze necessarie a raggiungere le finalità aziendali e le si fanno convivere con i concetti di responsabilità, efficacia, esperienza, gerarchia (e, ovviamente, legalità). Evitando che uno solo di questi criteri prevalga sugli altri e blocchi tutto. Un sistema di competenze integrate che sostituisca l’attuale frammentazione burocratica che produce l’artrosi.
5. Nel pubblico impiego (dai Comuni ai Ministeri) le competenze non sono così diffuse come dovrebbero ma spesso ci sono, quello che non c’è, appunto, è un modello di organizzazione del lavoro che consenta alle competenze e alle esperienze di esprimersi pienamente e di combinarsi fra loro al di fuori delle divisioni orizzontali di servizio e di quelle gerarchiche verticali.
6. Prima di qualsiasi intervento, allora, per rendere efficace la riforma, vanno aggiornate le finalità della PA (come richiamato al punto 1). Se non si rinnova la mission non ha senso pensare a una maggiore efficienza della PA. Se la finalità è prendersi cura (dall’inizio alla fine) dei problemi dei cittadini (in senso individuale, plurimo e collettivo) e fornire loro i servizi, gli indirizzi, i progetti necessari a rispondere ai loro bisogni (a volte inespressi o mal rappresentati), allora sarà più facile immaginare l’organizzazione del lavoro giusta per l’amministrazione pubblica.
7. Il pubblico impiego ha oggi una organizzazione del lavoro pre-taylorista (pre seconda rivoluzione industriale, per intenderci). Ha saltato almeno due innovazioni organizzative già realizzate nel sistema industriale e dei servizi: la produzione fordista di beni “di serie” e quella differenziata fino al prodotto “su misura” avviata dall’ultimo decennio del 900, più attenta alle esigenze dei singoli.
8. Se le cose stanno (mediamente) così, è indispensabile introdurre e diffondere alcune novità. Per superare la verticalità (il predominio della gerarchia sulla competenza) è necessario che i progetti più importanti poggino su dei team realizzativi (non permanenti), composti dalle diverse competenze necessarie fra quelle disponibili, anche se lavorano in unità di servizio diverse. E che quei team siano facilitati (almeno all’inizio) da un tutor che obblighi le persone al confronto e a mescolare i saperi. I team dovranno rispondere a un responsabile di progetto (che può essere un dirigente di livello adeguato capace di connettere non le procedure ma le capacità, le professionalità, le responsabilità e le esperienze), il quale, a sua volta, risponde alla istanza politica che guida l’Ente, dove c’è: assessore, sindaco, ministro, presidente, “governatore”, ecc.
9. Perché non possiamo dimenticare che a complicare l’efficienza della PA c’è un rapporto tra funzioni amministrative e responsabilità politiche mai chiarito e che offre alibi a entrambe le componenti della PA (datori di lavoro e dipendenti, dirigenti compresi): non c’è lo spoil system all’americana e nemmeno l’Ena francese che garantisce altissima competenza a prescindere dalle variabili politiche. C’è un guazzabuglio che a ogni elezione aumenta le incertezze e i trasformismi dei dirigenti, fino a rendere del tutto aleatori i concorsi e le progressioni di carriera.
10. Anche scendendo per la scala gerarchica c’è un problema di organizzazione del lavoro legata alle finalità del servizio: fin dagli sportelli in cui si riceve il cittadino. Lì oggi il “compito” che l’impiegato assume è solo quello di informare l’utente sulle procedure da rispettare per avviare una certa “pratica” e certificare che le abbia eseguite, punto. Quel che succede dopo non è un percorso trasparente.
11. Anche nel contatto con il pubblico c’è un problema di mancata “presa in carico” che va invece garantita. Non è possibile che oggi si possa tracciare on line la consegna internazionale di un pacco postale e che il tuo Comune non ti consenta di tracciare il cursus della tua “pratica” e di conoscerne l’esito motivato. Va ricreata una relazione tra cittadino e impiegato in cui quest’ultimo assume come proprio il problema che gli ha sottoposto il cittadino e che lui ha “certificato”. Se ha accettato un’istanza, deve assumere anche la responsabilità di risolverla (come accade nella sanità), non che esista una deresponsabilizzazione reciproca tra singoli ed uffici, coperta dal gioco del “non è di mia competenza” o del “non posso interferire con le funzioni di un’altra sezione”.
12. Se si cambia l’organizzazione del lavoro si dovranno necessariamente innovare anche inquadramenti, orari, componenti della retribuzione, come accaduto in altri settori di produzione e di servizio (da anni). Trattare (o concedere) incrementi retributivi slegati dalle caratteristiche del lavoro significa fossilizzare il sistema che c’è: rendere più indifferente il contributo del lavoro, non valorizzarlo.
13. Sappiamo che c’è anche il problema della scomposizione e sovrapposizione (qualche volta contrapposizione) del sistema amministrativo: non parlo solo della disconnessione macro tra Stato, Regioni, Città metropolitane, Città medie, Aree Interne, ecc. ma delle contraddizioni micro. La legge dice, ad esempio, che “il sindaco è responsabile della salute dei cittadini”, peccato che anche le decisioni sanitarie minori sono competenza della Regione attraverso le Asl. Oppure, toccando un tasto sensibile: ha senso che una sola persona, un “soprintendente” locale del Mibact, possa decidere in maniera totalmente autoreferenziale le caratteristiche del restauro di un edificio storico fino al colore della facciata, senza il bisogno (l’obbligo) di confrontarsi e di renderne conto a nessuno? Un funzionario che, da solo, ha il monopolio del “bello” e del “confacente”?
14. Infine, le dimensioni: in Italia ci sono migliaia di Comuni troppo piccoli per avere le competenze tecniche necessarie a svolgere le più normali funzioni amministrative di governo del territorio. Allora chi le svolge? le Province “zombie”, le Città metropolitane inventate sulla carta e mai sperimentate davvero? le Regioni “parlamentini” che invece di rendere omogenea la qualità dei loro servizi preferiscono parlare di “autonomia differenziale”?
Insomma, il percorso di riforma della PA che l’Unione Europea ci richiede è lungo e complesso se lo si vuole prendere sul serio, altrimenti sono buoni propositi o chiacchiere. Non basteranno le assunzioni. E nemmeno gli investimenti digitali. Se non si ridefiniscono le mission della PA il sistema resterà (prevalentemente) una burocrazia.
Gaetano Sateriale