Le previsioni economiche dell’Europa sull’Italia restano positive, ma ci inchiodano al ruolo di fanalino di coda del treno europeo. Galbraith riteneva che “l’unica funzione delle previsioni economiche è quella di far apparire rispettabile l’astrologia”, eppure l’allarme implicito in queste valutazioni va raccolto in quanto non basta seguire la corrente congiunturale per imboccare realmente una via di progresso durevole.
Anche la Confindustria senza chiedersi se ci sono sue responsabilità conferma che la produzione industriale è in un buon momento ma afferma anche che la distanza con la situazione precrisi è ancora notevole. Ed allora si cresceva economicamente con molta lentezza.
Al di là delle ricette economiche di breve periodo come è la manovra varata dal Governo, sarebbe il caso di chiedersi dove possiamo arrivare come sistema Paese quando l’inflazione resta bassa, il cosiddetto carrello della spesa invece aumenta, mentre le retribuzioni restano su una sorta di bagnasciuga come se per loro, solo per loro, la recessione fosse ancora in vigore.
È questa una considerazione che va fatta in particolare dalle forze sociali perché riguarda il loro ruolo e li richiama a responsabilità da assumere nel medio periodo se vogliamo dare ai miglioramenti economici una solidità che oggi manca.
Sarebbe molto utile affrontare senza anatemi preventivi due questioni che possono modificare l’attuale situazione in senso positivo e che riguardano da un lato il fatto che siamo in presenza di una questione salariale nazionale e dall’altro di un peso eccessivo del fisco su salari e stipendi con la conseguente necessità di procedere verso una detassazione più compiuta.
Del resto questa evidenza viene proposta dallo scenario economico più generale, quello che richiede una crescita non occasionale dei consumi interni anche per rafforzare la crescita del Pil, quanto mai necessaria anche ai fini degli investimenti e della riduzione del debito. Ma c’è da chiedersi se la Confindustria sia pronta ad affrontare questa tematica senza rigidità e senza calcoli di convenienza.
Sembra che la recente tornata di confronti contrattuali che ha visto le grandi categorie rinnovare i contratti senza un ruolo propositivo di Confindustria, non sia servito molto alla Associazione degli imprenditori privati. Che, anzi, in uno dei recenti documenti sulle relazioni industriali insiste su meccanismi salariali che dietro il pretesto di semplificare i contatti nazionali affidando loro la definizione pura e semplice del salario minimo in realtà propugna una linea di “risparmio” salariale ai danni dei lavoratori con una logica di mano libera sulle retribuzioni che ci ripoterebbe indietro di decenni nelle relazioni fra le parti sociali.
Una esemplificazione di questo stato di cose lo troviamo anche nella nostra categoria. Abbiamo iniziato positivamente un percorso con Federchimica e Farmindustria propedeutico alla prossima trattativa contrattuale con un documento firmato con le controparti unitariamente chiamato “Patto per innovazione, produttività, occupabilità e responsabilità sociale” nel quale il contratto viene inserito nel contesto dei grandi mutamenti in corso, ma sena fughe di responsabilità.
All’opposto abbiamo riscontrato resistenze forti nel settore gomma-plastica ad affrontare le materie contrattuali con una controparte che si mostra assai più sensibile ad una linea di chiusura che sembra alimentarsi ad una fonte confindustriale piuttosto che a quella dello stato del settore.
Linea che non poteva non registrare la nostra ferma reazione.
Questa ambiguità di fondo si muove in parallelo con l’atteggiamento più generale della Confindustria che continua ad adagiarsi sulle concessioni del Governo, senza guardare più in là, senza recuperare un ruolo progettuale che non può sostanziarsi se non c’è un cambiamento di fondo nelle relazioni industriali e negli obiettivi da porre in essere.
Come evitare allora di porsi anche l’interrogativo inevitabile di quale forza rappresentativa sia in possesso l’attuale Confindustria se i contratti, per giunta innovativi, si rinnovano a prescindere dalle sue convinzioni e se non ci sono proposte nuove che rispondano a una lettura aggiornata delle relazioni fra le parti.
Come si deduce dai percorsi contrattuali oggi le sfide che abbiamo tutti di fronte sono assai più complesse di ieri ma anche decisive per le possibilità di sviluppo del Paese e non si può sfuggire ad esse con una pura e semplice difesa delle posizioni nelle quali il retaggio del passato è prevalente.
Il sindacato deve fare i conti con questo cambiamento e naturalmente ha i suoi problemi, ma va dato atto che non si sottrae a questo compito dal quale dipenderà una efficace tutela delle nuove generazioni di lavoratori che per giunta vogliamo strappare alla precarietà che tuttora domina i rapporti di lavoro.
Ma proprio per questo bisogna capire che la realtà economica del Paese ci propone questioni che non possono essere aggirate. Ed una sempre più centrale sta diventando quella salariale, come questione nazionale. Da affrontare con buon senso e realismo, ma senza poter ignorarla. Del resto lo hanno capito anche in Germania dove dopo anni di surplus commerciale e di crescita che hanno reso quel Paese egemone nelle scelte di fondo dell’Europa, le rivendicazioni salariali nell’industria e non solo hanno ripreso quota. In parole povere, è necessario ricominciare a redistribuire la torta economica. Un processo che vede perfino la Bce di Draghi “complice” quando individua la necessità di potenziare l’inflazione da salari, affermazione ripetuta da tempo e sulla quale ovviamente Confindustria tace.
Far finta di niente non è possibile allora. La questione si voglia o no è nei fatti sul tappeto e va ben oltre le disquisizioni spesso sterili su come calibrare in modo ragionieristico la materia nei diversi livelli contrattuali.
E se questo problema va affrontato con senso di responsabilità, non può essere rimosso anche in relazione al clima sociale che una sua sottovalutazione può determinare nel mondo del lavoro. Non a caso l’anno prossimo sono 50 anni dal biennio di lotte e conquiste sindacali che hanno fatto degli anni 1968-69 un momento di svolta della nostra storia. Una lezione che può esserci utile anche nell’attuale situazione.
Di fronte alla staticità del quadro politico ed in parte di quello dei poteri economici, ci sono infatti nella realtà sociale e del lavoro già dinamiche ed idee che stanno scrollandosi di dosso un modo vecchio di affrontare i problemi ed ad esse occorre guardare per andare avanti. Sia per evitarle che diventino “anarchiche” rispetto alla esigenza di creare le condizioni per uno sviluppo stabile ed ordinato, sia per governarle nel modo migliore possibile. Un dovere che spetta a tutti, Confindustria compresa anche se oggi fatica ad accorgersene. Siamo in grado di compiere un salto di qualità in questa direzione? Dobbiamo provarci, perché anche questo vuol dire stare in Europa in modo comprensibile per il mondo del lavoro che vogliamo rappresentare.