Aris Accornero – Professore di Sociologia Industriale all’Università di Roma, La Sapienza
Accordi separati che hanno prodotto lacerazioni come quelle sui contratti a termine, sul rinnovo economico di metalmeccanici e sul cosiddetto Patto per l’Italia ripropongono un problema che il centro-sinistra non ha risolto e che il centro-destra non intende risolvere: quello della rappresentatività dei sindacati nel settore privato.
Al problema aveva fatto riferimento lo Statuto dei lavoratori richiamandosi al criterio di proporzionalità previsto dall’art. 39 della Costituzione, ma senza individuarne i parametri: tant’è che parlava semplicemente di “organizzazioni maggiormente rappresentative”. E ciò aveva dato luogo a un monopolio di fatto da parte delle tre organizzazioni che vantavano il maggiore numero di iscritti. A questo tipo di monopolio continuò a riferirsi nel 1991 l’accordo Cgil-Cisl-Uil sulle rappresentanze aziendali dei lavoratori, che ne determinava la rappresentatività dando un premio di maggioranza alle organizzazioni maggiori (la “clausola del terzo”, che sparì nel Protocollo del 1993).
I nodi in cui il sistema delle relazioni industriali si è imbattuto in Italia sono successivi all’ultimo accordo di concertazione, che fu siglato nel 2000 e che è (poco) noto come Protocollo per il Giubileo. E’ da allora infatti che lo spirito e l’ombrello della concertazione, dopo il culmine raggiunto con il cosiddetto Patto di Natale del 1998, hanno cominciato a mostrare debolezze e crepe. L’accordo separato sui contratti a termine, raggiunto quando era al governo il centro-sinistra, ha semplicemente anticipato quel che più drammaticamente è poi venuto con il governo di centro-destra.
Anche se c’era stato qualche accordo separato perfino in periodi di bassa competizione o di solida unità fra le tre grandi confederazioni, il colpo subito dalle relazioni Cgil-Cisl-Uil per effetto dell’accordo che ha intaccato l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori è destinato a sfociare in una discussione aperta sulla rappresentatività, se non altro perché le intese citate non portano la firma dell’organizzazione che ha più iscritti. I quesiti che si pongono sono parecchi, e i due davvero cruciali sono se qualsiasi sindacato possa firmare questo o quell’accordo con la controparte, e quanto può valere quell’accordo.
La questione della titolarità e la questione della cogenza sono preliminari e sine qua non perché, in mancanza di regole adeguate prima dell’accordo, dopo faranno inevitabilmente scoppiare questioni di contestazione dei contenuti e di verifica del consenso. Ciò è già accaduto nel caso del metalmeccanici e dopo il Patto per l’Italia, e non si può rispondere facendo spallucce soltanto perché le regole mancano: in democrazia, ci sono lesioni e ferite che incrinano la base fiduciaria indispensabile al sistema delle relazioni industriali.
Orbene, nel settore pubblico esiste da anni una legge che potrebbe aiutare a dirimere almeno il primo quesito anche nel settore privato. Infatti la titolarità a negoziare è condizionata da norme e da prassi che non soltanto hanno arginato la proliferazione di nuove organizzazioni ma che incoraggiano accorpamenti i quali hanno ridotto le troppe sigle capaci di proclamare scioperi nei trasporti. Le fonti della titolarità, determinate con metodologia salomonica, basano la rappresentatività sul doppio parametro degli iscritti alle organizzazioni e dei consensi nelle elezioni.
Per ovvie ragioni, la cogenza degli accordi nel settore pubblico non è un problema, ma intanto la titolarità di chi negozia per i lavoratori viene accertata e misurata. Senza queste condizioni, la titolarità verrebbe a dipendere dal riconoscimento accordato dalle istituzioni di governo, cioè dal potere politico, o dal riconoscimento prescelto dalla controparte datoriale, cioè dal potere economico. E’ proprio qui che il senso dell’art. 39 della Costituzione si ripropone come norma d’indirizzo, per uscire dalle soluzioni di fatto via via adottate nel dopoguerra a seconda della temperie sociale e del calendario politico.
La questione della rappresentatività era stata posta dal centro-sinistra sotto la fattispecie della rappresentanza, cioè in termini inappropriati, perché puntava a definire compiti e prerogative degli strumenti che gestiscono il rapporto fra lavoratori e sindacato: strumenti che in tutto il dopoguerra (dalle Commissioni interne ai Consigli di fabbrica alle Rappresentanze sindacali aziendali) non sono mai stati regolati da alcuna legge. Chiunque riproponga oggi la questione della titolarità, eviti di ripetere quell’errore.
Per quanto riguarda invece la cogenza degli accordi, l’Italia fruisce ancora una volta delle astuzie della storia: da noi le conquiste contrattuali non sono garantite di diritto erga omnes, ma in compenso sono garantite di fatto da tutta una tradizione della giurisprudenza. Questo consente una certa latitudine di scelta ai soggetti e alle istituzioni che dovranno dirimere le due questioni oggi sul tappeto.