Alla metà degli anni ’80, profeticamente, l’economista Paolo Sylos Labini in un suo libro scriveva che nelle società sviluppate “all’antico problema della fame biologica, subentra il problema, ancora più grave della fame di ideali…”. Oggi potremmo chiosare che questa fame è stata in parte tacitata da una pericolosa sorta di assuefazione acritica all’evoluzione di un capitalismo di cui sembrano essersi perse perfino le chiave di lettura più ovvie. Non a caso qualche reazione si intravede finalmente in qualche dibattito sulle sorti della nostra economia e dell’Europa. E la stessa Confindustria, sia pure in modo ambiguo, pare porsi qualche interrogativo su come stia cambiando pelle nella seconda fase della globalizzazione questo capitalismo. Fabrizio Barca del resto, in una sua recente e stimolante intervista, ha sostenuto che “il capitalismo funziona e da il meglio di sé, cioè produce innovazione, quando è stimolato dalla riduzione delle diseguaglianze…” Insomma deve accendere i…neuroni per affrontare le nuove sfide. Del resto è quello che avvenne 50 anni fa nell’autunno caldo: per il Presidente di quella Confindustria, l’armatore Angelo Costa, si era alle soglie dell’Apocalisse mentre in realtà l’imprenditoria più avveduta capì che andava abbandonato il vecchio sistema paternalistico e tayloristico e si avviò, inevitabilmente, verso una nuova fase economica (senza peraltro rimetterci fino alla prima crisi petrolifera). Nell’ultimo periodo è avvenuto il contrario: si è cercato di narcotizzare le diseguaglianze con misure che già stanno mostrando la loro inefficacia, mentre purtroppo neppure questo esito ha favorito l’emergere di una opposizione capace di proposte alternative.
Eppure in questa situazione, sempre più difficile sul piano economico e inquietante su quello delle strategie dei conti pubblici, sarebbe assai importante ed urgente confrontarsi proprio sulla “fame di ideali” che specie in campo riformista sembra essersi fin troppo sbiadita, quasi fosse stata ingessata da una colpevole ed illogica…dieta senza fine.
Questo è uno dei motivi per prendere sul serio quegli accenni alla riflessione sul capitalismo e, correndo anche il rischio di essere considerati avversari dei nuovismi di destra e di sinistra che sono di moda, riflettere sullo scenario della globalizzazione capitalistica nella quale siamo immersi dal quale comunque dipende la sorte della nostra economia , dei diritti e della dignità del lavoro, della stessa qualità della vita democratica che naviga sempre più in acque basse e limacciose.
E non si tratta di un vezzo intellettuale, ma di affrontare semmai il cuore dei problemi che abbiamo di fronte e che potranno condizionare anche il nostro fare sindacato. Perché si parla di capitalismo globalizzato quando dobbiamo constatare che in questi anni abbiamo perso il 20% delle nostre capacità produttive, il che per un Paese manifatturiero è davvero allarmante. Perché in una economia mondiale sempre più integrata ci salviamo con un 20% della produzione destinata all’export che galleggia fra guerre commerciali e stagnazioni economiche, ma con il restante 80% che dipende dalla domanda interna che dopo la recessione e con le incertezze sul futuro non riesce più a decollare anche perché mancano appropriate politiche salariali ed economiche a partire dagli investimenti.
Ma si discute di capitalismo anche quando si constata, come fa una recente analisi che le pesanti multe comminate nel mondo a banche e finanziarie sono arrivate a raggiungere centinaia di miliardi, ma non hanno impedito agli stessi soggetti di registrare nello stesso periodo utili record. Già, ma a scapito di chi se non di coloro che sono rimasti fuori dalla fortissima concentrazione di potere di una finanza senza regole e senza paletti? Derivati e subprime sono stati gli incubi della recessione esplosa nel 2008 con conseguenze micidiali sul lavoro, sulle diseguaglianze e sulla disgregazione sociale, come pure sulla compressione dei diritti del lavoro. Ebbene a fine 2017, ce lo ricorda l’economista Pedrizzi in un suo recentissimo libro, i derivati che sono fuori di ogni contabilità ammontano alla cifra sbalorditiva di 532 mila miliardi di dollari, poco distanti dai livelli pre-recessione. Vale a dire che le vere regole del gioco sono mutate molto poco e che una enorme , per ora invisibile, nube tossica di una finanza prepotente e senza controllo, non ancorata ai percorsi dell’economia reale, gode più che mai di ottima, preoccupante, salute. Se pensiamo a quel putiferio che quel tipo di finanza ha combinato nel 2008 ed in seguito è superfluo domandarsi se sia più o meno saggio ridiscutere gli scenari capitalistici attuali. Semmai potremmo aggiungere che di fronte a tali enormi questioni sono legittimi i dubbi sulle congruità delle ricette economiche alla Di Maio o di quelle “patriottiche” alla Salvini.
Ma c’è di più: il tessuto produttivo del Paese si è impoverito anche per altre ragioni: non abbiamo saputo individuare settori strategici da difendere e promuovere come hanno fatto gli altri, i cugini francesi in primis. E non agendo in questa direzione non ci siamo neppure premurati di arginare e selezionare lo shopping dei Paesi esteri nei riguardi delle nostre imprese, con il bel risultato che mentre il Ministro degli Interni si affanna a chiudere i porti, imprese di mezzo mondo ci scippano tranquillamente marchi prestigiosi, tecnologie, lavoro. E non sono soltanto i soliti tedeschi che controllerebbero comunque oltre 1300 imprese italiane, ma si fanno largo impunemente con le loro bandierine di possesso i cinesi come gli indiani, i turchi come i giapponesi. Come interveniamo? Qualche volta con le chiacchere, altre volte con il silenzio. Mai con la determinazione di una politica industriale sensata alla cui realizzazione chiamare le parti sociali.
In questo modo però ci troviamo di fronte ad un bivio: o prendiamo il toro per le corna e ci chiediamo sul serio come reagire di fronte a questa ennesima evoluzione capitalistica, oppure rischiamo di esser condannati a sopravvivere con quel che resta, condito da assistenza crescente (cassa integrazione, reddito di cittadinanza, sanatorie fiscali) e da diktat autodistruttivi come potrebbe essere il salario minimo.
Inutile dire che oggi ben altro occorre che salari minimi; salari alti servirebbero per rianimare l’economia e costringere le stesse imprese a porre mano al portafoglio sia al tavolo contrattuale che sul terreno degli investimenti per innovare e creare migliori condizioni di produttività.
Salari minimi? Certo, per andare in Venezuela, non per restare a competere con le economie europee o mondiali.
Salari più alti, deve essere la parola d’ordine senza se e senza ma. Ovvero una politica salariale diversa che è la risposta possibile ed utile da raggiungere ovviamente non solo con i contratti ma con l’utilizzo della leva fiscale che riduca realmente il cuneo retributivo e contributivo. La assurda vocazione pauperistica o quella furbastra della flax tax ci possono condurre solo verso un Paese sempre più spaccato ed attraversato da tensioni sociali sempre meno componibili, anche perché si è voluto ridurre a disvalore la mediazione sociale. Ed invece la discussione sullo stato concreto della nostra economia (e del nostro capitalismo) e sul compito dei Governi di attrezzarsi per gestire i problemi che quella finanza e quella globalizzazione di cui abbiamo parlato ci pongono spietatamente, dovrebbe divenire prioritaria e comprendere la rivalutazione necessaria del ruolo dei corpi intermedi e della partecipazione dei lavoratori, senza la quale il confuso populismo di questi tempi può generare incontrollabili disastri economici, autoritarismo, umiliazione della dignità del lavoro come del resto sta avvenendo nella Ungheria di Orban.
Per tali motivi è anche fondamentale ribadire il valore centrale dei contratti. Ci stiamo avvicinando ad una stagione di rinnovi che si preannuncia quanto mai difficile. Non si può e non si deve tornare indietro. Si deve andare avanti perché in questo contesto economico e politico che assomiglia ad una bolgia senza bussola il dovere delle parti sociali è quello di assumersi responsabilità ancora più grandi nei riguardi della tenuta sociale e del progresso delle relazioni industriali. Un loro regresso avrebbe delle conseguenze distruttive che andrebbero ben oltre i rapporti fra imprese e sindacati. E noi non lo vogliamo.
Anche le rappresentanze imprenditoriali non possono far finta di niente o limitarsi a criticare l’attendismo ed i ritardi del Governo in carica. Ci si aspetta anche da loro un cambio di passo, se non altro perché anche fra di loro ci sono stati in questi anni di profonde trasformazioni globali casi di abbandono della trincea imprenditoriale o con la vendita e la cessione della attività al miglior offerente quale che sia , o con la delocalizzazione all’estero, o, con la frattura con le passate generazioni di imprenditori a favore della rendita e dei vantaggi offerti dalla speculazione finanziaria. Ed anche questo scenario non può che ricollegarsi ad una riflessione attenta su cosa sia davvero questo nostro capitalismo con il quale volenti o nolenti dobbiamo fare i conti.
Perché, infine, è certamente meritorio che a mantenere dritta la barra di una critica netta e precisa all’attuale volto del capitalismo siano i Papi ed in particolare l’attuale Pontefice , Francesco. Il richiamo forte ad una etica diversa è prezioso e non può che bussare anche alle coscienze dei laici e dei non credenti in particolare per il recupero di un valore come la solidarietà. Ma è pur sempre un richiamo pastorale che è ben diverso dalle dinamiche del confronto-scontro politico e sociale. Lasciarlo isolato sarebbe un grave errore, ma non basta. Serve la politica, serve il confronto sui progetti e sulle strategie, serve la collaborazione, serve l’articolazione della vita democratica in grado di recuperare interesse e passione dei cittadini, dai giovani ai lavoratori, agli anziani. E serve un sindacato forte nelle sue convinzioni, deciso a giocare fino in fondo il suo ruolo contrattuale e di autorità salariale. In questi mesi Cgil, Cisl e Uil e molte categorie non sono state alla finestre anche se colpevolmente il Governo ci ha ignorato mettendo in campo immobilismo, incapacità, sterile propaganda. Ma è stata più importante la risposta dei lavoratori e dei pensionati, ampia, combattiva, positiva. Su questa strada dobbiamo continuare anche perché abbiamo forza unitaria e proposte serie da far valere.
Paolo Pirani – Segretario generale della Uiltec nazionale