La domanda, preliminare, e’: ‘’Con quali modalita’ ritieni prioritario agire per ridurre l’orario di lavoro?”. A rispondere, sulla piattaforma Rousseau, saranno chiamati nei prossimi giorni i supporter del Movimento Cinque Stelle, stimolati dal quesito lanciato da Marco Craviolatti: ‘’attivista sindacale’’ e gia’ autore di un volume sul tema pubblicato due anni fa dall’Ediesse, la casa editrice della Cgil, con prefazione dell’economista Stefano Fassina, oggi esponente di Sinistra Italiana. E tuttavia, non c’e’ nulla di particolarmente nuovo nella proposta: piu’ che altro, recupera la antica battaglia per le 35 ore, condotta in Italia negli anni Novanta innanzi tutto dalla Fiom, che su questo tema indisse una raffica di scioperi, senza risultato. Sucessivamente lo slogan ”lavorare meno, lavorare tutti” fu rilanciato con forza dal leader di Rifondazione Fausto Bertinotti , il quale tento’ di imporre le 35 ore al Governo Prodi. Quasi riuscendoci. Salvo che poi il Governo Prodi cadde e il successivo Governo D’Alema archivio’ definitivamente la questione.
In estrema sintesi, le proposte del Movimento vertono su un taglio drastico o dei giorni lavorati, solo 4 a settimana, o dell’orario settimanale, che dovrebbe oscillare in una forbice tra 25 e 35 ore massime. Per contro, tassando fortemente lo straordinario, in modo da disincentivarne l’utilizzo.
Craviolatti parte da quella che definisce una ‘’fotografia della realtà”, e cioe’ la seguente: “nei Paesi ricchi il tasso di occupazione è molto più elevato, e si lavora di meno. In Italia abbiamo il 57% di occupati, in Francia il 64%, sono in proporzione 3 milioni in più”. “Lavorare meno lavorare tutti” , afferma, “non è quindi uno slogan o un auspicio, è una constatazione della realtà, una correlazione statistica”. Inoltre, “gli orari di lavoro medi in tutti i Paesi cosiddetti avanzati sono in costante diminuzione da decenni, a ritmi diversi, dalla Germania all’Italia, dal Giappone alla Corea. Quindi la riduzione degli orari è un dato di fatto, è già in corso. Ma allora perché non ce ne accorgiamo, perché non stiamo tutti meglio? Perché è una media statistica del pollo: da una parte alcuni sono costretti a lavorare sempre di più, dall’altra, altri non possono lavorare quanto vorrebbero”.
Secondo Craviolotti, i costi per lo Stato, per avviare la riduzione degli orari di lavoro, “sono in genere molto limitati. In Francia le 35 ore sono costate circa un miliardo l’anno”. Per coprire i costi, suggerisce, “si può spostare il carico fiscale e contributivo penalizzando gli orari lunghi e gli straordinari a favore della riduzione degli orari”. Inoltre, afferma, “la produttività del lavoro è aumentata enormemente”, quindi ‘’in un’ora di lavoro si produce molta più ricchezza”. E quindi si chiede: “Ma se si produce più ricchezza, i salari sono gli stessi, e gli orari sono gli stessi, allora dove finisce quella ricchezza supplementare? Finisce nelle tasche di pochissimi investitori e azionisti, di quell’1% o 10% di privilegiati che concentrano la ricchezza mondiale. Ridurre gli orari significa allora riappropriarsi di quei benefici, del progresso scientifico e tecnologico che in questo momento va ad alimentare solo i profitti di pochi”.
“Avere tanto lavoro che costa poco per le imprese a prima vista sembra un vantaggio competitivo, ma è una logica di breve durata –insiste l’autore del post- Perché le imprese in tal modo galleggiano, fanno profitti, non sono motivate a investire e innovare, e nel giro di poco i prodotti e le tecnologie utilizzate diventano obsolete, la produttività si ferma, il valore prodotto non cresce più: e questo è il grosso problema dell’Italia, chiamata “la malata d’Europa” perché la produttività del lavoro è ferma da 15 anni mentre cresce in tutti gli altri Paesi europei”.
Dunque, la riduzione degli orari “va organizzata pensando sia al piano individuale sia a quello collettivo. Intanto ci sono tantissime persone che lavorerebbero di meno anche guadagnando di meno se solo potessero farlo, penso ad esempio ad alcuni periodi della vita come la maternità, la malattia, l’età avanzata. Bisogna dare a queste persone la possibilità di farlo, ad esempio introducendo un diritto al part time: i part time oggi in gran parte sono imposti, ma chi li vorrebbe spesso non può accedervi. Si potrebbe istituire un diritto al part-time, magari lungo di 30 o 35 ore, che non può essere negato a meno di problemi organizzativi insormontabili. Ci sono poi i congedi di cura che vanno potenziati e meglio retribuiti, come i congedi parentali che oggi vengono retribuiti solo al 30%, quindi rimangono spesso diritti sulla carta, mentre le raccomandazioni europee suggeriscono di portare la retribuzione almeno al 60% per farli fruire anche agli uomini.
Rispetto a quella che è invece “la riduzione collettiva degli orari”, garantisce Cravioletti, “le strade sono molteplici: ad esempio una riduzione orizzontale in cui le ore giornaliere vengono ridotte, o una riduzione verticale delle giornate lavorate, ad esempio la settimana corta di 4 giorni; oppure un modello nuovo di organizzazione dell’orario ordinario, ad esempio una fascia ampia che vada dalle 25 alle 35 ore. Questa fascia potrebbe essere lasciata poi alla contrattazione e alla libera organizzazione delle imprese, per garantire sia la necessaria riduzione che i margini di flessibilità, adattandoli ai diversi contesti lavorativi”.
N.P.