La politica della fontanella. Così la chiamava un vecchio esponente del partito comunista parlando ai giovani riuniti in sezione: “Ragazzi, fare politica significa occuparsi dei bisogni reali della gente”. C’erano i grandi ideali, gli infuocati dibattiti, i volantinaggi, l’affissione di manifesti, la preparazione dei cortei, la propaganda elettorale. Il ciclostile faceva da volano di ogni iniziativa lasciando qua e là macchie di inchiostro; la colla preparata in maniera rozza e artigianale imbrattava i vestiti; le trombe-megafono montate sul tetto di una macchina, di solito scassata, diffondevano slogan e musica. Bella ciao, Bandiera Rossa e l’Internazionale fungevano da colonna sonora dell’utopia, scandivano il sogno di un mondo migliore. L’antifascismo era militante.
“La fontanella però, non dimenticate la fontanella”, non si stancava di ripetere il saggio e avveduto dirigente. La battaglia per la difesa dell’acqua pubblica non era un obiettivo progettuale ma un impegno concreto, immediato. Negli anni Cinquanta e Sessanta, specie nelle borgate, non tutte le abitazioni avevano i tubi per un civile flusso idrico e le file con taniche e bottiglie rappresentavano uno spettacolo quotidiano. E così battersi per l’installazione dei “nasoni”, come vengono chiamati a Roma, e pretendere la loro manutenzione assumeva un valore rivoluzionario. Stare con il popolo, quando la parola populismo non aveva il significato vago, confuso e strumentale attribuitole oggi.
E lo stesso discorso valeva per la difesa di un artigiano in difficoltà, per la solidarietà offerta alle commesse minacciate di licenziamento, per il supporto agli operai in sciopero che avevano occupato una vicina fabbrica, per l’impegno a far aprire un consultorio pubblico, per la mobilitazione a favore di insegnanti e studenti costretti in aule fatiscenti, per il mantenimento del mercato rionale insidiato dalla grande distribuzione.
Questa era l’identità del Pci, queste erano le sezioni. E lo stesso valeva, pur in misura diversa, per i socialisti, i democristiani e, a modo loro, anche per i missini. I circoli monarchici, chissà perché, erano invece un campo neutro dove si giocava a bigliardino o a flipper.
Ricordi di altri tempi. Ricordi di passioni e di lotte. Ricordi di una democrazia che aveva le sue radici nei quartieri, nelle strade, nei caseggiati.
Ora imperano i talk show, i social, i sondaggi. Una dimensione liquida, eterea, artefatta. I partiti sono costruzioni estemporanee, smontabili e rimontabili a piacimento, assemblate con i mattoncini del consenso immediato, senza passato né futuro. Transformers per la ricerca del potere. Non è un caso che Fratelli d’Italia abbia conquistato la maggioranza senza rinunciare, e anzi rivendicando con orgoglio, le proprie radici, a partire dalla fiamma. Gli eredi del Msi non hanno abbandonato le sedi e i lari dei loro padri.
Il Pd va a congresso. Basterà un nuovo segretario, sarebbe sempre meglio segretaria, per ridargli linfa? Oppure l’anima, ammesso che l’abbia mai avuta, è definitivamente persa, volata via, in cerca di altri lidi? Si parla di scioglimento, di scissioni, di un ennesimo cambio di nome. Tutto in discussione. Con forme di cannibalismo. C’è chi ipotizza che i Cinquestelle possano diventare il polo attrattivo per una nuova sinistra. A questo sembra ambire Giuseppe Conte che al movimento fondato da Beppe Grillo, pur avendo perso oltre metà dei voti del 2018, ha ridato smalto e ruolo smentendo le profezie di un totale tracollo. Facendo leva sul reddito di cittadinanza, al sud è stato un trionfo.
Nuove organizzazioni, nuovi rassemblement, nuove etichette? Tutti i giochi sono ancora da fare.
La fontanella aspetta che qualcuno torni ad occuparsi di lei.
Marco Cianca