Vincenzo Bavaro, professore e ricercatore in Diritto del Lavoro, spiega le dinamiche della politica del governo Renzi e i possibili effetti sul mondo del lavoro e delle relazioni industriali.
1. Il paradigma delle politiche del lavoro del Governo Renzi
Bisogna pur intendersi sul significato delle parole usate nel discorso pubblico in materia di lavoro: «riforme strutturali», «flexicurity», «centralità del lavoro». Tutte formule utilizzate, anche questa volta, da un nuovo Governo che s’insedia; e così vale anche per quello presieduto da Renzi. Finora, la prima «riforma strutturale» di cui si richiede attuazione è sempre quella del mercato del lavoro; perciò possiamo ben dire che il lavoro è «centrale» nell’agenda di questo Governo, come anche dei precedenti, quantomeno degli ultimi 15-20 anni, sia in Italia sia in Europa. Una riforma strutturale – almeno negli annunci – sempre ispirata dalla combinazione fra «flessibilità e sicurezza» (la flexicurity): già il Libro Bianco del Ministro del Lavoro del 2001 ne adombrava i tratti, ma poi generò solo la legge delega n. 30/2003, un’altra “rivoluzione” per il mercato del lavoro italiano. Perché anche oggi, almeno negli annunci, il Governo parla nuovamente di “rivoluzione” del mercato del lavoro.
Eppure occorre guardare bene a cosa ci si riferisce quando si parla di “rivoluzione” o di “svolta” nelle politiche del lavoro. Occorre dunque guardare innanzitutto al decreto-lavoro (oggi legge n. 74/2014) e nel DDL Senato n. 1428 (meglio noto come Jobs Act). A dire il vero non solo negli organi di stampa principali ma anche in alcuni primi commenti di giuslavoristi (per esempio, Corazza, Il Jobs Act e la “svolta” sul lavoro del governo Renzi, in nelmerito.it, 17 marzo 2014; Magnani, La disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, in www.csdle.unict.it, Working Paper n. 212/2014) si tende a parlare di “svolta”. Dico subito che a me sembra più che una svolta, una accelerazione lungo una traiettoria che, questa sì, capovolge il codice genetico del diritto del lavoro post-costituzionale.
Voglio dire che la dottrina che anima l’istanza un po’ ossessiva di “riforme strutturali” del mercato del lavoro discende dall’autorità delle principali istituzioni internazionali (BCE, Commissione Europea, FMI, e nel recente passato anche la Banca Mondiale come nel rapporto Doing Business 2008) e affonda le radici nei capisaldi teorici del pensiero neo-liberale. Non è questa la sede per tratteggiare il profilo della cultura economico-politica del Governo Renzi; nondimeno, mi preme subito dichiarare che le recenti iniziative legislative italiane stanno dentro al paradigma neo-liberale allo stesso modo di come un albero sta nella foresta. Ciò vuol dire che guardando solo i singoli provvedimenti si ha una visione parziale della trama su cui si sviluppa l’ordine giuridico dell’economia; meglio guardare la sua traiettoria per apprezzare l’economia politica che l’esprime.
Se stiamo alle parole d’ordine del discorso pubblico del nuovo Governo, esse risultano in continuità con quelle degli Governi precedenti; a cominciare proprio dalla retorica sulla centralità del “Lavoro”. Il Lavoro è centrale perché nella dottrina neo-liberale il Lavoro e i suoi diritti (soprattutto quelli della tradizione europeo-continentale sanciti nelle Costituzioni del dopoguerra) rappresentano una delle principali “strutture” da riformare. È per me facile richiamare lo studio di JP Morgan, pubblicato il 28 maggio 2013, The Euro area adjustment: about half way there [http://www.pauljorion.com/blog_en/?p=1155] secondo il quale ciò che limita la crescita della zona Euro è la «debolezza istituzionale del Governo», la «debolezza istituzionale dello Stato rispetto alle regioni» e la «protezione costituzionale dei diritti del lavoro».
Come si vede, si tratta di temi “strutturali” sui quali (su alcuni) anche il Governo Renzi ha avviato (o almeno ha annunciato di voler avviare) un’azione politica di riforma. Beninteso, non penso che il Governo in carica intenda avviare modifiche della Costituzione repubblicana sui diritti del lavoro; dico solo che anche questo Governo si muove per allentare ulteriormente alcune rigidità del mercato del lavoro, al pari del Governo Monti che, si rammenti, appena insediato modificò la disciplina pensionistica (legge n. 214/11 – Decreto “Salva Italia”) e, subito dopo, l’art. 18 dello Statuto (legge n. 92/12 – Legge Fornero).
Si rammenti altresì che l’ultimo Governo Berlusconi (cui va ascritta anche la riforma del 2003) ha dato un contributo straordinario alla “riforma strutturale” del diritto del lavoro italiano grazie all’art. 8, legge n. 148/11 sulla contrattazione aziendale in deroga, primo atto – anche questo di natura lavoristica – col quale recepire i contenuti della nota lettera dei due presidenti (passato e presente) della BCE (sul punto v. la ricostruzione recente di Altimari, La legislazione del lavoro dal Governo tecnico alle larghe intese, in Rivista Giuridica del Lavoro, 2014, n. 1).
D’altronde, che il Governo in carica sia permeabile al paradigma neo-liberale, è testimoniato dallo stesso Renzi che, seppur prima di diventare Presidente del Consiglio, dichiarò a un organo di stampa che «non è vero che l’Italia e l’Europa sono state distrutte dal liberismo ma che al contrario il liberismo è un concetto di sinistra, e che le idee degli Zingales, degli Ichino e dei Blair non possono essere dei tratti marginali dell’identità del nostro partito, ma ne devono essere il cuore» (Renzi, Intervista a Il Foglio, 8 giugno 2012).
È una dottrina propagandata in Italia anche da economisti come Alesina e Giavazzi, secondo i quali «le liberalizzazioni dovrebbero essere una bandiera della sinistra perché aiutano soprattutto i consumatori più poveri». Ecco il paradigma neo-liberale: il soggetto da tutelare sono i consumatori e non i lavoratori; anzi, «ogni protezione dei produttori corrisponde a uno sfruttamento dei consumatori»; «un altro pregiudizio diffuso, e falso, è che la concorrenza danneggia i lavoratori. È falso perché essi stessi, fuori dall’azienda in cui lavorano, sono consumatori. Quando si eliminano le rendite, tutte le rendite, come lavoratori perdono sì la quota di rendita di cui godevano nella loro azienda, ma come consumatori pagano prezzi più bassi su tutti i beni e i servizi che acquistano» (Alesina, Giavazzi, Il liberismo è di sinistra, il Saggiatore, Milano, 2007, p. 51).
Appare evidente, perciò, che il paradigma neo-liberale consiste nel ridurre la protezione dei lavoratori (i produttori), riducendo le tutele nel rapporto di lavoro attraverso una maggiore flessibilità, e accrescere la protezione dei cittadini (i consumatori), accrescendo le misure di sostegno pubblico o – meglio ancora – liberando le capacità allocative del mercato, fluidificando anche le transizioni nel mercato del lavoro: insomma, come “consumatori di rapporti di lavoro” ai quali si deve garantire solo un’ampia scelta di opportunità.
La traduzione legislativa di questo paradigma è nota. Basta rileggere il Libro Bianco del 2001, oppure il Libro Verde della Commissione Europea del 2006 sulla Modernizzazione del diritto del lavoro, oppure ancora la più recente Agenda Monti e riscontrare una continuità nella traiettoria. Anzi, quest’ultimo documento sembra quasi dettare lo schema poi seguito dal Governo Renzi nell’impostare il Jobs Act presentato al Senato.
Nel terzo capitolo dell’Agenda Monti si legge che «la modernizzazione del mercato del lavoro italiano richiederà inoltre di intervenire per: una drastica semplificazione normativa e amministrativa in materia di lavoro… il superamento del dualismo tra lavoratori sostanzialmente dipendenti protetti e non protetti… coniugare il massimo possibile di flessibilità delle strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza economica e professionale dei lavoratori… spostare verso i luoghi di lavoro il baricentro della contrattazione collettiva»; infine, dare priorità a un «Piano Occupazionale giovanile» e all’occupazione femminile attraverso la «politiche di conciliazione famiglia-lavoro». Contenuti replicati in buona parte nelle pagine della Relazione di accompagnamento al DDL n. 1428: «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché conseguire obiettivi di semplificazione e razionalizzazione delle procedure di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro allo scopo di ridurre gli adempimenti a carico di cittadini e imprese».
Insomma, la politica del Governo Renzi ha espliciti ancoraggi nel pensiero neo-liberale ed efficaci precedenti nei Governi degli ultimi lustri; il che induce a ridimensionare la qualità “rivoluzionaria” dell’iniziativa legislativa odierna rispetto alla precedente. Al più, dobbiamo parlare di “rivoluzione” se ci riferiamo all’assetto giuridico-costituzionale del diritto del lavoro europeo del dopoguerra; ma questo è un discorso da sviluppare in tutt’altra sede.
2. Sulla flexicurity italiana
Fin qui – per riprendere la metafora di prima – la foresta. Vediamo però da vicino l’albero. Ebbene, si conferma lo stesso schema da almeno tre lustri: prima di tutto si dà corpo alla flessibilizzazione della prestazione di lavoro, mettendo sullo sfondo le politiche di sostegno al cittadino/consumatore di lavoro. È stato così col Governo Monti e la riforma Fornero: immettere subito maggiore flessibilità in uscita con la riforma dell’art. 18 dello Statuto e generalizzare il sistema degli ammortizzatori sociali con le ASPI e i fondi di solidarietà bilaterali che, però, rimodulano tutele senza accrescerne in modo significativo.
Se leggiamo il Jobs Act alla luce del Decreto-Lavoro sul contratto a termine (legge n. 78/2014) ne abbiamo conferma. Anche il Jobs Act prevede all’art. 1 la delega per la riforma degli ammortizzatori sociali e dei servizi all’impiego (art. 2); oppure per il sostegno alla maternità e alla conciliazione vita-lavoro (art. 5). Nel frattempo, però, in tempi rapidi, l’ultimo Governo Berlusconi emana l’art. 8, del d.l. 138/11, il Governo Monti innalza l’età pensionabile e, di lì a poco, modifica l’art. 18, il Governo Renzi modifica la disciplina del lavoro a termine.
Se analizziamo questa legge estrapolandola dalla tendenza legislativa dell’ultimo ventennio, a me pare debba parlarsi di manipolazione finalizzata a liberalizzare il lavoro a termine, ma in linea con la tendenza di tutte le leggi che a partire dal 1987 hanno modificato questa materia, sicché per quanto robusta sia l’ultima manipolazione, non riesco a vedervi una «rivoluzione copernicana» (Soldera, Dopo tanti annunci finalmente una novità concreta, sul Diario del Lavoro, 4 aprile 2014).
Due sono le manipolazioni: da una parte la rimozione del vincolo di apporre la causale alle assunzioni a termine fino a 36 mesi massimi complessivi di utilizzazione del lavoratore; dall’altra parte l’attenuazione delle sanzioni in caso di superamento del limite di contingentamento. Ebbene, la mancata previsione della causale di un contratto a termine fu già introdotta dalla Legge Fornero per il primo contratto a termine non superiore a 1 anno. Oggi, il Governo ha allungato questo periodo a 3 anni, comprensivi delle eventuali 5 proroghe. Quindi, direi che il principio dell’a-causalità è intaccato dalla Legge Fornero; il decreto Poletti lo accentua. A prescindere dai possibili dubbi di contrasto col diritto dell’UE, quel che è certo è che il decreto-lavoro ha notevolmente accentuato la liberalizzazione del contratto a termine, invero già ripetutamente liberalizzato dai precedenti interventi legislativi.
Riguardo poi al limite del 20% di contingentamento di lavoratori a termine sul totale degli occupati, a fronte del silenzio della legge precedente sulla sanzione da applicare in caso di superamento del contingente e che aveva lasciato spazio a soluzioni favorevoli alla conversione dei contratti a termine in eccedenza, oggi la legge n. 74/2014 ha espressamente previsto la sanzione amministrativa; sicché, allor che si contabilizzi la sanzione, lo sforamento del tetto percentuale risulterà praticabile “in fatto”. La tendenza a “monetizzare” le sanzioni lavoristiche è una caratteristica del diritto del lavoro neo-liberale, com’è dimostrato anche dall’art. 3, comma 2, lett. e), del Jobs Act nel quale viene indicato come criterio direttivo per il legislatore delegato la «revisione del regime sanzionatorio, tenendo conto della natura formale della violazione». Essa allude proprio alla una tecnica sanzionatoria che garantisce risarcimento ma non intacca l’organizzazione del lavoro. Una sorta di contabilizzazione dei diritti del lavoro, purché non si agisca sui poteri manageriali.
Così facendo, anche il dibattito sul contratto unico, previsto dall’art. 4 del Jobs Act, finisce per perdere di urgenza ed efficacia dal momento che queste modifiche al lavoro a termine dovrebbero offrire un’altra (l’ennesima) opportunità di assunzioni flessibili alle imprese. La liberalizzazione del lavoro a termine influenza (e depotenzia) la discussione sul contratto unico (che è un contratto a tempo indeterminato), nonostante esso si connoti per essere un contratto a tutele ridotte (in primis in materia di licenziamento) nella prima fase di efficacia, se inquadriamo il lavoro a termine non come strumento di flessibilità in entrata, bensì di flessibilità “in uscita”. Se pensiamo al lavoro a termine come a un contratto “a licenziamento programmato” (allo scadere del termine), eliminare la causale al momento dell’assunzione sarebbe come eliminare la causale al momento del licenziamento, assoggettandolo solo al limite del termine programmato. Per questa ragione la liberalizzazione del lavoro a termine ha indotto alcuni ad avanzare dubbi sulla compatibilità con l’obbligo di giustificare il licenziamento sancito nella Carta di Nizza (art. 30) (Saracini, Quella incostituzionale liberalizzazione del contratto a termine, in economiaepolitica.it, 8 aprile 2014).
Ad ogni modo, appare evidente che il segno principale impresso dai primi atti di natura legislativa del Governo Renzi si collocano in continuità con una politica di flessibilizzazione della prestazione lavorativa nella dichiarata speranza che ciò porti a incrementi dei livelli occupazionali; una “retorica” ormai così radicalmente sconfessata sul piano scientifico che non può che essere chiamata “ideologia” (v. da ultimo Deakin, Malberg, Sarkar, How do labour laws affect unemployment and the labour share of national income? The experience of six OECD countries, 1970–2010, in International Labour Review, Vol. 153, 2014, n.1, p. 2 ss.)
3. Il Governo Renzi le relazioni industriali italiane
Conferma del paradigma neo-liberale nelle politiche del lavoro del Governo Renzi si può avere dalla prospettiva delle relazioni industriali.
Tralasciamo le dichiarazioni pubbliche, che pure non denotano disponibilità verso il movimento sindacale italiano, e restiamo agli atti e ai non-atti. In materia sindacale/contrattuale, il Jobs Act intende introdurre un «compenso orario minimo, applicabile a tutti i rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» (art. 4, comma 1, lett. c). Si tratta di una ipotesi di Salario Minimo Legale.
Ebbene, che effetti può produrre il SML? Senza dubbio esso può dare copertura a quel segmento di evasione dei contratti collettivi e limitare la concorrenza al ribasso della contrattazione collettiva “pirata”. Ma il problema riguarda proprio il rapporto fra SML e contrattazione collettiva (cioè il sistema di relazioni industriali). Ebbene, se consideriamo il SML come attuativo dell’art. 36 Cost. esso delegittimerebbe il salario minimo contrattuale così com’è stato garantito dalla giurisprudenza italiana; diversamente ci troveremmo di fronte a due diversi livelli di quantificazione del livello retributivo “minimo sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa”: l’uno previsto dai contratti collettivi nazionali e l’altro dalla legge (questione trascurata da Durante, Intervista. Il salario minimo rafforza anche il sindacato, in questa Rivista, 4 luglio 2014).
Vero è che, “in concreto”, esistono differenti livelli di retribuzione minima stabiliti dai diversi contratti collettivi nazionali di categoria; ma si tratta, appunto, di un effetto “concreto” che non altera il sistema delle fonti. Un SML entra in contraddizione col salario contrattuale proprio rispetto all’art. 36 Cost. perché impone di scegliere se il livello minimo sufficiente di retribuzione debba derivare dall’Autonomia Collettiva oppure dall’Autorità Amministrativo-Legale. Senza contare che, ove anche si ritenesse che il SML amministrativo dovesse essere previsto a seguito di consultazione sindacale, si tratterebbe comunque di un salario minimo non coincidente con quello previsto dai CCNL e – assai presumibilmente – più basso; con la conseguenza o di incentivare all’uscita dai CCNL per applicare il SML o, bene che vada, a costringere il salario contrattuale a tendere verso i livelli del SML.
L’alternativa sarebbe l’efficacia generale dei contratti nazionali firmati dai sindacati rappresentativi; ma ciò implicherebbe una legge su contrattazione e rappresentanza. Legge di cui non si ha alcuna traccia nella politica del Governo Renzi né rientra nei fondamenti della dottrina neo-liberale. Anzi, questa dottrina, non concedendo nulla alle tutele nel rapporto, nulla concede ai vincoli al potere manageriale, di cui rappresentanza sindacale e contrattazione collettiva sono la massima espressione. Insomma, c’è una sorta di incompatibilità teorica fra dottrina neo-liberale e diritti sindacali. Così ci si può spiegare i non-atti di questo Governo: nessun intervento sull’art. 8, d.l. n. 138/11 del Governo Berlusconi, nessuna volontà di riprendere la delega della Legge Fornero sulla partecipazione, nessuna iniziativa legislativa su rappresentanza sindacale e contratto collettivo.
Nell’orizzonte della politica del lavoro del Governo Renzi, non c’è spazio per la concertazione; nell’orizzonte della dottrina neo-liberale, c’è uno spazio molto risicato per il sindacato (non a caso, assai opportunamente, il Diario del lavoro se ne sta occupando con le sue interviste). In conclusione, più che “svolta” o “rivoluzione”, la politica del lavoro del Governo Renzi sembra concorre alla “normalizzazione neo-liberale” dell’Italia dentro il quadro europeo; più che svolta, forse si tratta di accelerazione.