La soluzione alla crisi di governo sembra quasi debba essere una nuova formula politica “alchemica”, che dovrebbe garantire un difficile equilibrio tra tenuta democratica e pressioni dell’Unione europea sulla gestione del Recovery Fund, con un machiavellismo di comodo che ha come elemento costitutivo la “capocrazia” senza leadership, quella “autorità carismatica” descritta da Max Weber, come un “potere legittimato sulla base delle eccezionali qualità personali di un capo o la dimostrazione di straordinario acume e successo, che ispirano lealtà ed obbedienza tra i seguaci”.
In questo scenario é evidente lo stato di ininfluenza del sindacalismo italiano rispetto al sistema politico-istituzionale.
Certo, non sono i tempi in cui il potere sindacale, nato sull’onda dell’”Autunno caldo” nel 1969, poteva far cadere, anche solo con l’annuncio di uno sciopero generale (come accade al governo Rumor nel luglio del 1970), un esecutivo e neppure gli anni nei quali la mobilitazione delle piazze guidate da leaders carismatici come Lama, Carniti, Benvenuto, Trentin, che teorizzavano e praticavano concretamente il modello del sindacato “soggetto politico” nel pluralismo culturale e politico delle rispettive organizzazioni sindacali, imponevano per tutto il decennio Settanta e per larga parte di quello successivo, prima del “Decreto di San Valentino” nel 1984, a governi e parlamenti di discutere con i rappresentanti del mondo del lavoro la politica economica nazionale, né gli anni della concertazione e del neocorporativismo “all’italiana”, che negli anni ’90 del secolo trascorso, ha consentito la tenuta del sistema economico e sociale del Paese.
Ciò che appare evidente è l’abdicazione del sindacalismo italiano alla propria funzione di soggetto che discute e si confronta a livello istituzionale sui grandi temi dell’economia e che, se necessario, utilizza il conflitto per incidere sulle scelte pubbliche, inverando l’analisi che un grande sociologo del lavoro come Aris Accornero, recentemente scomparso, già nel 1992 aveva compiuto, descrivendo la “parabola del sindacato”.
Un sindacato alle prese con una crescente burocratizzazione, ripiegato in un rapporto corporativistico con le “storiche” associazione datoriali, Confindustria in primo luogo, in una sorta di cittadella chiusa, sempre più piccola e assediata da nuove forme di sindacalismo autonomo e di base e da organizzazioni datoriali espressive del nuovo sistema produttivo reticolare in profonda trasformazione, mentre si è sviluppato un elevato pluralismo associativo che ha eroso consensi e rappresentatività, arginato a fatica dai vecchi paletti di un ordinamento intersindacale del tutto slegato dal contesto in cui venne elaborato da Gino Giugni, che impedisce a chi ne è fuori di esercitare legittimamente diritti sindacali e funzioni di contrattazione collettiva. Tema, quest’ultimo, che abbisogna ormai, senza remore, di un intervento legislativo regolativo, rispettoso dei principi e delle previsioni dell’art. 39 della Costituzione, letti in chiave evolutiva secondo l’insegnamento del diritto vivente, per riscrivere e aggiornare relazioni industriali che mostrano evidenti segni di logoramento.
In questo senso ci vorrebbe una nuova capacità di elaborazione programmatica e di mobilitazione sociale dei sindacati, anche su temi lavoristici nuovi, quali la previsione di un sistema basico di tutele oltre le paratie della subordinazione, la disciplina rigorosa del lavoro agile, un nuovo sistema di ammortizzatori sociali, memore di grandi proposte del passato che, invero, conservano, aggiornate tutta la loro validità.
Si pensi al “Piano del Lavoro” proposto nel 1950 dalla Cgil guidata da Giuseppe Di Vittorio, segnato da forti influenze del “New Deal” rooseweltiano, per una politica di investimenti in opere pubbliche e infrastrutture, in grado di stimolare la domanda e generare occupazione specie nel Mezzogiorno, crescita economica, incrementi salariali; al “Fondo di solidarietà” delle tre centrali confederali nel 1980, elaborato negli ambienti della Cisl di Pierre Carniti, per creare uno strumento alimentato dallo 0,50% dei singoli salari su base volontaria, in favore degli investimenti; al “Polo bancario-assicurativo” sostenuto in particolare dalla Uil di Giorgio Benvenuto nel 1989, tra Banca Nazionale del Lavoro, Inps e Ina per orientare il risparmio dei lavoratori verso gli investimenti e gestire la previdenza integrativa.
Proposte di grande valore strategico e culturale nel solco dell’idea di democrazia economica, rispetto alle quali, purtroppo, si deve registrare l’apatia del sindacalismo confederale ai nostri giorni, quale tratto distintivo della più generale crisi della rappresentanza sociale.
Maurizio Ballistreri, Professore di Diritto del Lavoro nell’Università di Messina, presidente dell’Istituto di Studi sul Lavoro