L’arte non ferma la morte. E nemmeno le epidemie. Ma interpreta, ricorda, immagina. Dona forma e colore allo smarrimento dell’animo di fronte all’inconoscibile e all’imprevedibile. Cerca risposte, apre altri interrogativi, indica soluzioni. Rende tangibile il sogno, affronta l’incubo, afferra le illusioni, reifica l’amore, sublima il desiderio, incanala il dolore. E trasfigura l’utopia. Nel 1338, Ambrogio Lorenzetti affrescò la sala dei nove nel Palazzo Pubblico di Siena. Dieci anni dopo la peste lo rapì. Lui, la moglie e le tre figlie.
Resta, imperitura, l’immagine di un mondo migliore, un mondo possibile. Ecco l’allegoria del buon governo: la giustizia, la pace, la fortezza, la prudenza, la magnanimità, la temperanza, la sapienza, la concordia. E i suoi effetti: città operose e allegre, campi floridi e invitanti. Ordine, armonia, sicurezza. Ed ecco l’allegoria del cattivo governo: l’avarizia, la superbia, la vanagloria, la crudeltà, il tradimento, la frode, il furore, la divisione, la guerra, la tirannide, con la giustizia incatenata ai suoi piedi. Gli effetti: case in rovina e campagne devastate. Violenza, fuga, timore.
Hisham Matar, scrittore di origini libiche, ha dedicato buona parte del suo ultimo libro, “Un punto di approdo” (Einaudi), proprio alle riflessioni suscitate da questa opera pittorica, simbolo e anelito di una virtuosa convivenza civica. Una visione di quel che può produrre di buono l’umana comprensione e di quel che può causare il suo esatto contrario. E forse la malattia, l’epidemia, il flagello pustoloso, nella mente creatrice del pittore, erano già inconsciamente insite nella degenerazione del cattivo governo, sorta di visionaria premonizione.
Scrive Matar: “La peste nera, come il morbo venne chiamato a causa delle piaghe scure che apparivano sulla pelle dei contagiati, passava da un continente all’altro a velocità straordinaria, senza dubbio più in fretta di quanto nel quattordicesimo secolo potessero viaggiare le notizie sul suo conto. Si spostava con tale andatura, e la ferocia dei suoi assalti era così stupefacente, che molti si chiedevano se in realtà non fosse un’intelligenza tattica e pensante, sempre intenta a escogitare modi per confondere e sopraffare le sue vittime. Ma naturalmente la peste non aveva alcuna coscienza, nessuna maligna ragione, avanzava semmai con oltraggiosa indifferenza, svolgendo bene il suo lavoro per i propri fini, cieca, imparziale, senza temere un’eventuale sconfitta né giubilare dei propri trionfi”.
Lorenzetti, come quasi la metà della popolazione mondiale di allora, ne è vittima ma indica anche la medicina. Cioè la concordia. Quel filo che nell’opera pittorica va da una mano all’altra dei 24 senesi in fila e che rappresenta il vincolo ineludibile dell’uguaglianza, della solidarietà e del bene comune. Le grandi difficoltà, come la diffusione del coronavirus, non sono flagelli mandati da qualche divinità ma il frutto di una natura violentata. Come la guerra è figlia della volontà di sopraffazione e della voglia di dominio uno sull’altro. Il buon governo non indica una formula politica ma evoca “la capacità degli uomini di forgiare il proprio futuro”. In nome della giustizia, la virtù che Lorenzetti nel suo capolavoro raffigura tre volte.
Quando ci risveglieremo dall’incubo nel quale siamo piombati, quando riavremo la nostra libertà, quando torneremo ad abbracciarci, ricordiamo, con Matar, l’insegnamento della pittura senese: ciò che ci accomuna è più di quanto ci separa.
Marco Cianca