Nel mare infinito di crisi industriali irrisolte, il caso di La Perla è uno dei rari esempi di lieto fine. Una lunghissima vertenza avviata dai sindacati ormai 13 anni fa, ha nei giorni scorsi portato a una soluzione positiva, definita addirittura “storica”. Ce ne parla, in questa intervista, Stefania Pisani, segretaria della Filctem-Cgil di Bologna, che ha seguito la vicenda fin dal primo giorno.
Accordo raggiunto per l’unificazione delle procedure che interessano il gruppo La Perla e la vendita a un solo acquirente. Qual è il percorso che ha portato a questo risultato?
È una vertenza complicata e per spiegarne l’esito occorre fare un passo indietro. Una delle caratteristiche principali di questa vertenza, guardando solo sotto il profilo procedurale e non quello sindacale, è che ci troviamo di fronte a un fallimento transfrontaliero post-Brexit con un’azienda che, per quanto sotto il profilo funzionale è un’azienda unica, per ragioni poco nobili di risparmio fiscale di chi ha detenuto l’azienda precedentemente – quindi parliamo dell’epoca Scaglia, 2014 – ha subìto una spacchettamento ingiustificato tra diverse funzioni. Abbiamo, quindi, La Perla Manufacturing – la parte di produzione, La Perla Management – italiana, con all’interno tutte le funzioni di staff (amministrativi, e-commerce, commerciale) – e La Perla Italia – la parte retail. Al di sopra di questo pacchetto societario abbiamo La Perla Management UK a Londra, detentrice del marchio che è depositato lì. Quindi gli asset del gruppo sono frantumati tra normative diverse. L’impalcatura crolla quando come organizzazioni sindacali e lavoratrici abbiamo sollevato il problema: una delle caratteristiche principali di questa vertenza, unica nel panorama, è che si è deciso a febbraio 2023 di uscire fuori dai confini aziendali – rivolgendoci alle istituzioni territoriali e al Ministero e all’opinione pubblica – il fatto che questa azienda era vittima di speculazione finanziaria. Usciti dal Covid registriamo che nel settore tessile dell’alta gamma si raggiungono in tempi brevissimi i tassi di crescita del settore pre-covid e dopo un anno si erano addirittura superati. Ma stando all’interno dell’azienda, infatti, abbiamo rilevato che ciò non avveniva in La Perla, che continuava ad avere un blocco produttivo. Le lavoratrici in assemblea denunciavano il fatto che erano al lavoro, ma nei fatti non avevano materiale per lavorare. A fronte di ciò abbiamo deciso di denunciare il problema alla Regione Emilia Romagna, utilizzando anche una sorta di stratagemma: siccome ci chiedevano di prorogare il contratto di solidarietà che inizialmente vedeva la sospensione dell’attività lavorativa per due giorni a settimana – finalizzato a trovare una partnership aziendale che potesse immettere quella liquidità che il fondo Tennor, proprietario dell’azienda, non immetteva – e fidandoci poco delle nostre controparti, il primo contratto di solidarietà che abbiamo fatto non è stato di dodici mesi ma di sei, perché volevamo porre al vaglio della scadenza del contratto di solidarietà il raggiungimento dell’obiettivo della partnership industriale. Quando ci siamo resi conto che fondamentalmente erano tante chiacchiere senza sostanza, innanzitutto ci siamo rifiutati di essere l’unico elemento di risparmio come costo del lavoro e ci siamo intestarditi perché la solidarietà fosse un solo giorno a settimana e non due. Ma essendoci comunque problemi di liquidità – perché il fondo treno non faceva arrivare soldi se non per il pagamento dello stipendio – abbiamo proposto alla dirigenza italiana di utilizzare questo momento di stasi produttiva per riqualificare le professionalità nella logica della transizione green del settore e ci siamo rivolti alle istituzioni regionali per strutturare un progetto che, al termine di questa situazione di stallo, avrebbe permesso di avere professionalità già perfettamente integrate nella logica della transizione green del settore, un altro valore aggiunto rispetto a nobile marchio La Perla. Questo ci ha consentito di imporre la presenza del fondo – per la prima volta, perché il fondo non si è mai fatto vedere – presso le istituzioni regionali che, avallate anche opportunisticamente dalla dirigenza italiana che non sapeva come reperire liquidità per portare avanti l’azienda non ricevendola dal fondo, approvano il progetto ma esigono garanzie che questi soldi non venissero deviati verso altre finalità.
E qui entra in scena Lars Windhorst, il finanziere olandese che detiene il fondo.
Windhorst propone un investimento di 60/70 milioni di euro sul sito bolognese per rilanciare lo sviluppo dell’azienda. Conoscendo il nostro interlocutore e la sua scarsa affidabilità, abbiamo chiesto un elemento in più: non ci basta l’impegno generico del rilancio aziendale, ma avevamo bisogno che ci fosse anche un piano di finanziarizzazione del piano industriale – ovvero vincolare in relazione al piano industriale le varie fasi con soldi direttamente in banca, perché altrimenti quei soldi rischiavamo di non vederli mai. Windhorst scompare e la prima novità è che ad agosto del 2023 non viene pagato lo stipendio di luglio.
E in tutto ciò qual è stato il ruolo del Ministero?
Agli inizi di luglio 2023 abbiamo chiesto un incontro al ministero del Made in Italy sottolineando quali erano le nostre ragioni di preoccupazione, ma non ci viene data risposta. Quando ad agosto non viene pagato lo stipendio facciamo esplodere la bomba mediatica, incalzando il Mimit dicendo che i marchi italiani non si salvano cambiando il nome del ministero, ma magari anche rispondendo alle richieste d’aiuto che arrivano dai territori. Il giorno successivo scopriamo dall’Ansa – e non dalle nostre PEC – che viene fissato un incontro il 5 settembre 2023. Quando fallisce la cosiddetta capofila, che è la management UK di Londra depositaria del marchio, fallisce per opera dell’Alta Corte di Londra. Noi eravamo già presso i tavoli ministeriali, quindi era già stato attivato tutto il percorso di attenzionamento istituzionale sulla vertenza. Il primo di novembre avviene il fallimento, si bloccano definitivamente tutti i flussi di cassa verso le aziende e quindi non vengono più pagate le retribuzioni, le utenze, i fornitori dei server: in pratica viene progressivamente spenta l’azienda.
È a questo punto che partono i ricorsi?
Avendo preventivamente attivato tutti i percorsi, questo ci ha consentito già nella prima settimana di dicembre di presentare i ricorsi in tribunale che nei mesi precedenti avevamo studiato sulla base di quello che è il nuovo Codice della crisi. Abbiamo deciso di chiedere per le tre aziende italiane l’amministrazione straordinaria in prima istanza, in seconda istanza la liquidazione giudiziale. L’amministrazione straordinaria viene chiesta è per salvaguardare la produzione dell’azienda: non potevamo permetterci la cessazione dell’attività lavorativa – perché un’azienda di quel tipo che esce dal mercato fatica recuperare le quote di mercato; al contempo avevamo la debolezza di non avere il marchio – di proprietà degli inglesi che avrebbero potuto venderlo visto che il fallimento era partito da lì, e se fosse stato venduto senza le competenze delle lavoratrici avremmo registrato per l’ennesima volta in Italia una perdita importante: non ci sarebbe più stata La Perla. Anche se un marchio è l’elemento economico maggiore, ha senso solo se ci sono al suo interno quelle competenze che sono uniche nel settore, per cui la vendita di quel marchio sarebbe stato l’atto finale della speculazione finanziaria di cui era stato vittima il gruppo La Perla. Al giudice di Bologna, inoltre, chiediamo anche il sequestro preventivo del marchio perché riteniamo che in realtà il centro principale degli interessi non sia a Londra, ma in Italia: i prodotti vengono prodotti in Italia, spediti dall’Italia, i rapporti con il resto del mondo ce li hanno le lavoratrici italiane . Il giudice ha avallato la nostra impostazione: parlando di un fallimento transfrontaliero post-Brexit dove non c’è più un regolamento europeo che tiene insieme siti che gravitano su normative nazionali diverse, questo diventa un elemento dirimente. Aver sequestrato preventivamente il marchio e in una seconda fase tutto l’asset del gruppo La Perla, ha bloccato quelli che sono i tempi delle procedure inglesi.
È questo, quindi, il punto di svolta?
Questo fa capire l’importanza del protocollo che finalmente – anche se con un ritardo spaventoso – è stato siglato da tutte le procedure, quella inglese compresa. A fronte degli ostacoli che abbiamo messo sul percorso, gli inglesi hanno capito che riescono ad arrivare alls vendita solo se trovano un accordo anche con le procedure italiane, altrimenti si sarebbe dovuti andare presso un arbitrato internazionale, perché dovevano appellare la sentenza non dove c’era la sede legale del marchio, a Londra, ma in Italia e fare questo avrebbe significato che se l’appello fosse andato a buon fine avrebbero dovuto sorbirsi una vertenza giudiziale di arbitrato internazionale che avrebbe allungato ulteriormente i tempi.
Quindi, in pratica, per gli inglesi è stata una scelta obbligata grazie al vostro percorso.
Sì, hanno compreso che non potevano andare dritti per la loro strada facendo finta che tutto il resto del mondo non ci fosse – se non volevano rischiare un arbitrato internazionale che allungava i tempi e in queste situazioni i tempi non sono un dettaglio, anche perché hai dei creditori che ti stanno attaccati ai garretti e sei arrivato lì perché dei creditori hanno impugnato i loro crediti presso l’Alta Corte di Londra. Questo ha consentito di ottenere il primo protocollo a livello europeo che gestisce un fallimento transfrontaliero post-Brexit con una logica che per farla passare sulle quattro procedure è stato complicatissimo. Ma il risultato è stato di avere un protocollo che sancisce la vendita congiunta perché ogni azienda è funzionale all’altra e che le competenze sono un elemento strategico per la buona riuscita del rilancio aziendale. Il protocollo ancora non è pubblico, ancora non ci sono i dettagli – anche perché le normative inglese e italiana sono completamente diverse. Il fondo Tennor è comunque ancora proprietario dell’azienda e in Inghilterra ci sono delle normative di maggior tutela rispetto all’Italia, visto che da noi Tennor potrebbe essere accusato di bancarotta fraudolenta mentre a Londra viene considerato il più grosso creditore. È paradossale.
La conciliazione con lo scenario giuridico extra-Ue è il famoso scoglio di cui si parla?
Sì, ed è stato anche il motivo per cui negli ultimi due mesi abbiamo tenuto basso il riflesso sull’opinione pubblica della vertenza La Perla. Dovevamo aspettare assolutamente che venisse trovato un accordo, ma non solo: dovevamo aspettare che venisse redatto anche il bando di vendita.
Ed è in questo senso quindi che Urso ha detto che è un caso che farà scuola?
Esattamente. I nostri legali sono attenzionati un po’ da tutte le università italiane e dagli specialisti del settore perché questo protocollo fa da apripista e siccome non stiamo andando verso un momento economico facile da gestire è probabile che ci troveremo di fronte a tanti altri casi come La Perla nei prossimi mesi. Avere un protocollo con queste caratteristiche fa una una differenza di non poco conto, perché si stabiliscono dei principi: non si consente uno spezzatino aziendale perché non si sta facendo un’operazione di finanza speculativa, ma si vuole riportare l’attenzione all’economia reale, non a quella finanziaria dei dividendi, e si vogliono tutelare le competenze, che sono il valore aggiunto del nostro sistema di economia reale.
Quanto a finanza speculativa la vicenda di La Perla somiglia in qualche modo a quanto accaduto alla ex-Gkn di Campi Bisenzio.
È vero. La vertenza di a Perla è emblematica di un sistema che ormai sta sfuggendo di mano ai più, soprattutto ai governi. Noi ci troviamo di fronte a una situazione in cui la finanza ha preso il sopravvento rispetto all’economia reale; una finanza che ragiona in termini di trimestrali e di riduzione di costi, che si riducono non investendo – motivo per cui il nostro sistema produttivo è obsoleto – e licenziando le competenze. Quello è il modo migliore per avere delle trimestrali positive che mi possano dare i dividendi. Quindi registriamo paradossalmente un crollo dei dati macroeconomici dell’economia reale e a un’esplosione imbarazzante delle rendite finanziarie. Il fatto è che non ci sono limiti normativi. Noi, le lavoratrici La Perla, siamo andate a Bruxelles per presentare questo genere di problema al Parlamento europeo; abbiamo chiesto che ci venga spiegato per quale motivo esistano in Europa dei paradisi fiscali e come questi siano congeniali al modello sociale europeo. L’economia reale sono i volti delle nostre perline, che con le regole attuali possono essere abbattute a fronte di soldi che vengono poi deviati verso paradisi fiscali con il modello delle scatole cinesi. È quello che è avvenuto nel gruppo La Perla, ma se si analizzasse oltre scopriremmo la stessa situazione anche in altre vertenze del Paese e non solo.
Quindi il mantra del Made In Italy e la sua valorizzazione sono solo un’etichetta?
Rischia di essere un’etichetta se non si mettono dei punti di concretezza. Noi siamo delle lavoratrici e dei lavoratori e il nostro compito è mettere concretezza nelle discussioni che altrimenti rischiano di essere di facciata; bisogna incalzare sulla concretezza mettendo in evidenza le contraddizioni che ci sono tra il slogan e la vita reale delle persone.
All’inizio c’è stato quasi un sostanziale disinteresse per la vertenza da parte del Ministero…
L’interesse c’è stato solo nel momento in cui abbiamo reso pubblica la mancata risposta del Ministero del Made in Italy. Dopodiché, quando hanno convocato noi e il fondo Tennor, al primo incontro Lars Windhorst si collega da remoto sul suo jet privato dichiarando al Governo italiano e alle rappresentanze sindacali che ha bisogno d’aiuto e dobbiamo comprenderlo. Tant’è che le delegati sindacali hanno risposto: “È che ci manca il jet!”. Il ministero si è trovato di fronte a una complessità difficile da comprendere e inizialmente guardava solo al tema del mercato. Per onestà intellettuale bisogna ammettere che il ruolo del Ministero e delle Istituzioni non è stato di dettaglio, anche perché avevamo a che fare con un altro Governo, quello inglese.
Ma come è possibile che per il salvataggio delle aziende si incappi puntualmente in speculatori come Lars Windhorst o Borgomeo, i cui curricula sono piuttosto eloquenti?
Quando la logica del mercato prende il sopravvento basta che l’azienda venga venduta in un contesto in cui non ci sono limiti di sorta. Se la logica è esclusivamente quella del mercato, anche rispetto al nostro legislatore, basta semplicemente procedere alla vendita. Si narra che Silvio Scaglia – proprietario di La Perla (nonché ex patron di Fastweb) che acquisisce il gruppo dalla procedura concorsuale nel 2012 dopo che un altro fondo americano l’aveva acquisito nel 2007 e lo ha mandato in malora – abbia venduto l’azienda a Lars Windhorst nel 2018 per 1€: tra i due c’erano rapporti precedenti, ma soprattutto Scaglia aveva debiti con Lars Windhorst e li ha pagati con La Perla. Questa cosa si può fare tranquillamente, è tutto perfettamente legittimo. Le conseguenze sono collettive e sociali di territori, di nazioni: come è possibile che dei singoli senza scrupoli possano beneficiare da queste operazioni e far pagare i costi alla collettività? Ed è quello che noi abbiamo chiesto al Parlamento europeo: noi crediamo nelle nostre istituzioni e diciamo alle nostre istituzioni che devono essere più autorevoli.
Quindi servono più regole?
Servono delle regole che equilibrano, perché non è possibile che i benefici si concentrino nelle mani di pochi soggetti e i danni si distribuiscono invece nelle nazioni – e sono i dati macroeconomici a dircelo. Noi che non viviamo di finanza speculativa, ma del nostro lavoro, siamo destinati a perire e se il motore centrale dello sviluppo non è il lavoro dobbiamo rassegnarci a perdere anche quello che è il modello sociale che abbiamo ereditato, che avremmo dovuto migliorare e che invece non lasceremo alle nuove generazioni. Così come non lasceremo un sistema produttivo. Non è un caso che i lavori che si creano siano a basso valore aggiunto – e quindi come tale poveri e precari; non è un caso che non ci siano investimenti privati. A livello sindacale la vertenza di La Perla è spettacolare perché è una battaglia fatta da un gruppo di donne caparbie che rivendicano la loro competenza e non lo fanno in modo muscolare, ma con arte e ironia, risultando inclusive e potenti proprio per questo. In quanto donne non stanno combattendo solo ed esclusivamente oggi per i loro posti di lavoro, ma nelle loro battaglie rivendicano di poter lasciare alle nuove generazioni un sapere che loro hanno ereditato dalle generazioni precedenti, che hanno migliorato e che non può essere disperso.
In sintesi, la vertenza può dirsi conclusa?
Siamo all’ultimo miglio e non sarà semplice, perché ci dovremo confrontare con il mercato. Stiamo provando a rivendicare soluzioni industriali e non finanziarie, ma non dipende da noi. Molti parlano della possibilità di fare una cooperativa, valutazione che abbiamo anche già fatto ma comprende rischi finanziari: una cooperativa significa trasferire sulle lavoratrici quei rischi, stiamo parlando di qualcosa di molto grosso. La fase due nella nostra lotta sarà esattamente quella di provocare l’imprenditoria non appena verrà pubblicato il bando. Abbiamo anche il nuovo slogan – o meglio: le lavoratrici usano anche il canto come strumento di lotta e a Bruxelles le ho presentate come “le nuove mondine”. La canzone che ci sarà in questa fase è quella di Viola Valentino: “Compraci, noi siamo in vendita”.
Visto che si parla già di potenziali acquirenti italiani e internazionali, c’è qualche rischio che si incappi in un altro avventuriero?
C’è sempre questo rischio ed è quello che dobbiamo scongiurare per questo che procederemo alle provocazioni di cui parlavo. È evidente che non ci possiamo permettere che il bando vada deserto e non ci possiamo permettere che gli unici soggetti che guardano a un gruppo come quello La Perla, con quelle competenze e quella storia, possano essere gruppi finanziari. Il problema non è la finanza in sé, ma la logica speculativa che ammazza l’economia reale per gonfiare i dividendi. È quella la dinamica che noi contestiamo.
Cosa c’è nel futuro di La Perla?
Non ci accontentiamo che l’azienda venga acquistata. Abbiamo un progetto – perché ormai ci muoviamo strategicamente su ogni cosa -: stiamo ragionando con le istituzioni perché vogliamo costruire all’interno dell’azienda una scuola del sapere in maniera tale che le competenze delle generazioni che stanno lasciando il lavoro per raggiunti limiti di età possano essere investite per accrescere le competenze dei ragazzi che escono dalle ottime scuole professionali del tessile del nostro territorio; al contempo vogliamo che ci sia un museo dell’arte delle lavoratrici di La Perla che metta in evidenza quelle che sono le abilità manifatturiere delle nostre lavoratrici che hanno reso il made in Italy noto in tutto il mondo, perché riteniamo che il turismo debba essere un turismo culturale e non solo enogastronomico. Le eccellenze che dobbiamo far conoscere al mondo sono anche quelle delle nostre mani, delle nostre teste, della nostra anima.
Elettra Raffaela Melucci