Mentre si profila… l’ennesimo assalto alla diligenza attraverso gli emendamenti alla manovra economica sia pure con un “tetto” per evitare sforamenti di bilancio, non si coglie sul tema delle pensioni qualche reale ripensamento sul taglio alle rivalutazioni. Lo stesso leader di Forza Italia, Berlusconi consegna a futura memoria il suo cavallo di battaglia che è, come è noto da tempo immemorabile, l’innalzamento delle pensioni minime a mille euro. Siamo insomma al crepuscolo degli slogan di sapore elettoralistico, quasi che il “lavoro sporco” sul sistema previdenziale non abbia…alternative.
È importante allora che almeno dal movimento sindacale si sia deciso di opporsi a decisioni che, combinate con quanto si profila sul fisco, realizzeranno uno scenario di crescente iniquità a danno del lavoro dipendente e dei pensionati.
Negli anni ’90, di fronte alla crisi economica, i Governi di allora decisero di intervenire sulle indicizzazioni delle pensioni in modo dirompente: per una parte si trattò di un taglio permanente, vale a dire sulla fine dell’aggancio delle pensioni alla dinamica salariale; in secondo luogo, si mantenne il collegamento con l’andamento della inflazione ma con dei limiti …a termine. La conseguenza di queste operazioni determinò i maggiori risparmi sul fronte previdenziale ma anche l’avvio di una lunga stagione di impoverimento delle pensioni. Evidentemente il governo Meloni ha compreso molto bene il valore di quella scorciatoia e ha pensato bene di riprovarci con la riduzione della copertura dalla inflazione delle pensioni medio-alte, che in gran parte tutto sono meno che “ricche”, per intascare un bottino che nel corso dei prossimi anni, dieci per l’esattezza, toccherà la cifra “certa” e notevole di 36 miliardi. Un obiettivo che finora mai la lotta alla evasione è riuscita a raggiungere.
Si condanna in questo modo le pensioni di un numero crescente di cittadini italiani a “dimagrire” anche a dispetto del fatto che molto spesso esse costituiscono nei bilanci familiari una voce assolutamente essenziale.
E si “tradisce” clamorosamente l’attenzione ai ceti medi della destra politica che si concentra invece su altri segmenti sociali a cominciare dalle partite Iva.
Ed a nulla vale giustificare che in tal modo si garantirà la sostenibilità del sistema pensionistico. La decisione riguarda ora circa 3,5 milioni di pensionati che a quanto pare perderanno da circa 200 euro l’anno fino a duemila. Intaccando, dunque, la sostenibilità del loro tenore di vita. E questo risultato si ottiene ovviamente riducendo per il futuro il valore delle pensioni ai fini del calcolo di perequazione, per il semplice motivo che la percentuale ridotta di adeguamento al costo vita si “spalma” sull’insieme dell’assegno previdenziale.
Viene legittimato così più di un sospetto circa la reale valenza di questo intervento che ancora una volta ha il sapore di una ingiusta “punizione” nei riguardi della condizione anziana, come se la pensione non fosse giustificata da contributi versati ma fosse sempre più considerata parte delle elargizioni “assistenziali” dell’Inps.
Altro discorso sarebbe stato se si fosse iniziata un’opera, quanto mai necessaria, di distinzione chiara fra assistenza e previdenza, a parola sempre giudicata una scelta utile ma nei fatti sempre evitata come la peste.
Ma l’intervento sulle pensioni non può essere letto come un fatto isolato. Va invece collegato al sistema fiscale per il quale vale la considerazione che proprio gran parte della spesa assistenziale va a gravare su quei redditi, da lavoro e da pensione, verso i quali è più…incisivo il taglio delle rivalutazioni.
La divaricazione del sistema fiscale in due binari, quello delle partite Iva e quello dell’Irpef sempre più “riserva indiana” per dipendenti e pensionati, addizionali comprese, non potrà che peggiorare le cose in quanto impedirà in futuro ripensamenti che si rivelerebbero sempre più onerosi.
Il paradosso che si evidenzia è ancor più “odioso”: si aumenta la propensione all’assistenzialismo, mentre non si pone mano a quelle politiche che permetterebbero di affrontare in modo assai più efficace il rapporto sempre più esiguo fra lavoratori attivi e pensionati. Ovvero realizzare politiche attive del lavoro per allargare la platea dei lavoratori, politiche industriali in grado di garantire quella vitalità indispensabile all’economia italiana, una vera riforma fiscale che si lasci alle spalle ambiguità e spazi per la grande evasione per tornare a criteri di equità in armonia con quanto sostiene la Costituzione.
La situazione politica non incoraggia fiducia. Anche perché il taglio delle rivalutazioni si accompagna ad altre linee di condotta di questo governo che non autorizzano attese di riforme positive. Si accentua invece la contraddizione che vede lavoro dipendente e pensionati caricarsi sulle spalle l’onere di finanziare i servizi pubblici in maniera crescente con, per giunta, il ritorno di una visione politica che declassa la qualità di quei servizi e considera in particolare la sanità un capitolo di spesa da contenere e non un settore essenziale da promuovere e migliorare.
Che questa manovra sia un…inizio di un percorso politico, non ci piove. Ma deve preoccupare la direzione di marcia, perché i danni che in essa si colgono, danni reali e danni potenziali in futuro, non possono che alimentare un allarme sociale. Servirebbe insomma un ben diverso confronto politico e sociale, almeno per evitare ingiustizie che faranno lievitare le diseguaglianze e la frammentazione sociale. Con un anno, il 2023, che si preannuncia assai più difficile dell’anno che sta per finire e nel quale può essere messa in discussione la crescita, può rimanere insidiosa la inflazione, può proseguire una politica monetaria non più permissiva come in passato. Un contesto nel quale tutto andrebbe immaginato meno che acuire le debolezze del nostro tessuto sociale.
Paolo Pirani
Consigliere Cnel