Dopo cinque anni di recessione e disoccupazione record, è venuto il momento di far piangere sul serio anche i ricchi? Uno potrebbe pensare che a rilanciare il vecchio appello di Rifondazione comunista sia, oggi come oggi, l’Internazionale troskista o organizzazioni similari. Ma si sbaglierebbe. Per quanto possa sembrare inverosimile e impossibile a chi abita in un paese, piegato da mesi di braccio di ferro sull’opportunità di abolire la più ovvia delle patrimoniali, cioè la tassa sulla casa, a discutere se torchiare – e quanto – le casseforti dei contribuenti più prosperi sono fedeli custodi del capitalismo, come gli economisti che lavorano all’Fmi di Washington o ad Harvard.
La lunga crisi ha, in effetti, allargato gli squilibri sociali, aumentando le ineguaglianze fra l’esercito dei disoccupati e una classe media impoverita da una parte e il 10 per cento dei loro concittadini più ricchi. Anzi, l’1 per cento. Se non, più precisamente, lo 0,1 per cento, quell’uno su mille che, dicono le statistiche, ha intercettato il grosso della crescita economica degli ultimi quindici anni, crisi compresa. Ecco perché, nel rapporto sulle politiche fiscali nel mondo, appena uscito, il Fondo monetario internazionale osserva che una tassa sulla ricchezza, oggi, apparirebbe a molti “equa”. Ma l’Fmi ha in mente un’idea precisa e un obiettivo altrettanto chiaro. La tassa sulla ricchezza potrebbe servire a potare, una volta per tutte, i debiti pubblici, rendendoli nuovamente sostenibili. Insomma, mentre, in Italia, due illustri economisti (Alberto Alesina e Francesco Giavazzi) propongono di affrontare il debito, liquidando il patrimonio pubblico, a Washington puntano, invece, sui patrimoni privati. Una tassa sulla ricchezza da applicare una tantum, una sorta di contributo forzoso di solidarietà, ma irripetibile, per rinsanguare le casse dello Stato. Se applicato rapidamente (per evitare fughe preventive) e se viene percepito effettivamente come una tantum (per evitare rivolte), dice l’Fmi, può anche risultare meno pesante di un default o di una inflazione galoppante, che sono le alternative standard per domare il debito.
E di quanto dovrebbe essere la tassa? Be’, una bella stangata. Per riportare di colpo i debiti pubblici ai livelli pre-crisi, cioè di fine 2007, l’Fmi calcola una tassa del 10 per cento sulla ricchezza netta. E’, probabilmente, una sorta di tetto massimo. Per l’Italia, ad esempio, servirebbe meno. Il 10 per cento della ricchezza netta, in Italia, equivale a circa 800 miliardi di euro, mentre, per tornare ai livelli di debito pubblico del 2007 (cioè per scendere dal 130 per cento attuale del Pil a circa il 100 per cento) ne basterebbero 500. Ovvero, una tassa di poco più del 6 per cento. Comunque molto: 60 mila euro su un patrimonio (al netto dei debiti) di un milione di euro. Tranne, naturalmente, l’ipotesi di fasce di esenzione e altri ammortizzatori. Ma, anche se quella dell’Fmi appare soprattutto una provocazione, ciò che colpisce è la sua direzione.
Tanto più che un economista considerato moderato e conservatore, come Kenneth Rogoff, non se ne scandalizza affatto. Anzi: “le giustificazioni morali per una tassa sulla ricchezza – scrive – sono oggi più convincenti che mai”. Rogoff, piuttosto, non crede che funzioni: troppo facile evadere o nascondere i capitali, troppo difficile anche calcolarla, ad esempio in paesi come l’Italia, con tante imprese familiari. La soluzione del professore di Harvard? Ovvia, a pensarci bene: concentrare l’imposizione sui beni immobili, terra e fabbricati. L’Imu, in poche parole. Nelle sue tabelle, d’altra parte, l’Fmi spiega bene che, ad esempio in Italia, le imposte sul reddito, rispetto agli altri paesi, sono troppo alte e quelle sui consumi (Iva) e sulla casa (Imu) troppo basse. Se tassasse la casa come la Francia, l’Italia avrebbe rastrellato oltre 30 miliardi di Imu (nel 2012, quando c’era) invece di 23 e se la tassasse come in Gran Bretagna e negli Stati Uniti oltre 40 miliardi, circa il doppio. In via permanente, naturalmente, e non una tantum.