Alcune frasi, fra tante. Un’affermazione di principio: “Prima viene la libertà e solo dopo l’uguaglianza; ed è la vera, la sola misura del cambiamento anche nei rapporti di lavoro e nella possibilità di ridurre le diseguaglianze”. Una polemica dichiarazione di intenti: “Penso che continuerò sul filone della cultura politica divenuta trasformismo con il crollo del muro di Berlino, anche se aveva dei robusti precedenti nella cultura del Pci nel secondo dopoguerra. Il titolo potrebbe essere “uscire dal trasformismo”…Il trasformismo come versione degenerata del riformismo”. Un’amara considerazione: “La corsa verso il Partito democratico appare sempre di più una bandiera logora, costruita sul nulla e sulle beghe personali, una deriva che è solo fondata sull’ impotenza di confrontarsi con i problemi della società civile”. Un triste stato d’animo: “Una fase di acuta depressione. Un blocco quasi totale, incapacità di scrivere. Quasi di leggere- se non di malavoglia e distrattamente. Un senso di impotenza e di vanità: anche nei confronti dei miei studi e dei miei saggi. È tale la dismisura fra i miei rovelli e il degrado pauroso della vita politica, della cultura di sinistra in Italia che finisco per perdere ogni capacità di relativizzare e di riacquistare una distanza rispetto agli avvenimenti politici quotidiani che vivo con una sofferenza crescente”.
Leggere i diari di Bruno Trentin è come andare sulle montagne russe. Picchi di grande progettualità e di irraggiungibili analisi seguiti da vertiginose discese verso quello che lui stesso definisce “un pessimismo quasi cosmico”. Il dentro e il fuori. La voglia di fare, di lottare, di cambiare e lo sconcerto per la spregiudicata pochezza di tanti interlocutori, in una sinistra” affetta da provincialismo e dall’ossessione mimetica tipica dei parvenus” e in un sindacato che rinuncia al ruolo ineludibile di soggetto politico e non riesce a superare il limite “difensivo e corporativo”.
Nel 2017 l’Ediesse aveva pubblicato, suscitando grande interesse e altrettanta meraviglia, un primo blocco dei suoi taccuini personali, quelli che vanno dal 1988 al 1994. Ora arrivano in libreria, per i tipi di Castelvecchi, le riflessioni dal 1995 al 2006, un anno prima della scomparsa. A curarli, inserendosi nel solco biografico arato dal compianto Iginio Ariemma, al quale va la dedica in esergo, sono Ilaria Romeo e Andrea Ranieri che nell’introduzione, sgombrando il campo da ogni eventuale nuova polemica sull’opportunità di rendere pubbliche considerazioni e giudizi personali, chiarisce subito: “Riteniamo sia importante rendersi conto di quanta passione e di quanto dolore ci fosse dietro alla razionalità con cui Bruno si confrontava con amici e avversari, per trasferire la ricchezza della sua personalità e del suo pensiero a chi oggi non ha smesso di leggerlo e di studiarlo”.
“Bruno Trentin e l’eclisse della sinistra”, è il titolo dato al volume evidenziando subito il filo conduttore degli scritti. Quella sinistra della quale è stato anima volitiva e inquieta, audace protagonista e tormentato spettatore, eretico nel pensiero e nell’azione. Alcuni brani hanno il sapore di profezie. Inascoltati avvertimenti ai propri compagni di strada che però non avevano il suo coraggio e la sua lungimiranza. E così, leggendolo, si capisce meglio come si sia arrivati all’attuale crisi di rappresentanza e di legittimità delle forze politiche e sindacali. Certo, non poteva prevedere la pandemia, ma l’attenzione per il degrado ambientale e la denuncia dei modi di produzione contenevano in nuce una valida ricetta per evitare l’attuale tragedia.
Ma come potevano esserci bagliori di una reale volontà di cambiamento quando i protagonisti del lungo travaglio Pds-Ds- Pd si comportavano come “nuovi yuppies”? “Logorati da anni di frustrazioni e di sconfitte anche personali e bramosi di partecipare a un avventura che li porti finalmente e non dalla porta di servizio nella stanza dei bottoni” hanno perseguito come unico obiettivo “quello della governabilità e non quello della trasformazione del rapporto tra governanti e governati”, nell’accoppiata “cinismo-dilettantismo”. L’alternativa, constata desolato, appare per molti “fra l’essere degli avventurieri senza princìpi e senza valori morali e degli avventurieri cretini”. Lo chiama “rimasuglio del peggior leninismo” o anche “leninismo senza rivoluzione”. Del vecchio Pci, annota, “questo gruppo dirigente ha cancellato la parte più ricca per rimettere in auge il peggior centralismo burocratico, il partito dei deputati e degli apparati”.
Sferzanti i giudizi su Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Sprezzante la constatazione di “guerre per bande che vedono trionfare la paranoia dei personalismi e le avventure di nuovi aspiranti leader forti della fedeltà acefala dei cortigiani”. Impietosa la ripetuta denuncia del “carosello trasformista”: “Oggi nessuno si scandalizza di vedere delinearsi capriole ideologiche in una trasmissione di Porta a Porta”. “Il dibattito diventa soltanto una lite fra capetti, nel corso della quale la contrapposizione personale supera di gran lunga il merito originario della controversia”. “Una mutazione genetica che lascia la sinistra senza identità e senza confini”.
Trentin è annichilito dalla mancanza di un progetto, di un programma, di una visione complessiva della società. E questo vale anche per il sindacato, tutto, e per l’amata Cgil, in particolare. Difende Sergio Cofferati dagli attacchi subiti nel partito ma poi ne evidenzia “il riflusso corporativo e il tatticismo esasperato”.
Torna il mai esaurito tema della liberazione del lavoro e quello dei diritti (persino “borghesi”, con tutti “i loro limiti e le loro contraddizioni”). E poi la volontà di contrapporre la qualificazione e la competenza all’autoritario metodo della meritocrazia, che significa, in realtà, “fedeltà, lealtà, obbedienza: “Conoscenza vuole dire prendere di petto l’autorità e dare contenuto alla libertà”. Riteneva un colossale errore continuare a muoversi lungo “una linea risarcitoria, di compensazione economica”, di “assistenza e redistribuzione”, che, ha avuto “momenti di grande portata politica ed economica e democratica (il welfare) ma che non è mai riuscita ad intaccare il monopolio di conoscenza e di decisione posseduto dalla casta dei manager, in conflitto a loro volta con la finanziarizzazione dell’ economia e il dominio degli azionisti”. Ancora: “L’impresa rimane un territorio off limits dove il funzionamento esige disciplina e gerarchia indiscussa, pena il fallimento dell’impresa stessa fondata in tutti i suoi aspetti da una divisione del lavoro invalicabile”.
Poi l’impegno di parlamentare europeo. E anche qui la voglia di fare si scontra con le incomprensioni, le ottusità, i ritardi, il cinismo, la strumentalità. Un profondo turbamento lo coglie quando gli rubano la mitica borsa, che portava sempre con sé, con dentro “tutta la mia attrezzatura di sopravvivenza, libri, pipe, medicine, camicia, cravatte e il quaderno che conteneva appunti, cronache, letture di due anni e mezzo. Mi sento nudo e senza memoria”. Un momento di disperazione superato con il tentativo di scrivere un saggio “sulla crisi della sinistra italiana e sugli obiettivi cardine di un progetto (formazione, ricerca, welfare, Europa) inteso come un percorso di liberazione”.
Ma tutta la parte finale dei diari è dedicata a Giuseppe Di Vittorio. Trentin ricorda le vicende del ’56, l’invasione dell’Ungheria, la posizione critica assunta dalla Cgil, l’attacco al segretario generale, anzi “l’aggressione faziosa” da parte dei dirigenti del Pci, che fecero persino circolare la menzogna che Di Vittorio volesse diventare “il nuovo leader del partito” scalzando Palmiro Togliatti. Impietoso il ricordo di Giorgio Amendola: “Il suo ruolo è stato infame”. Luigi Longo, invece,” si distinse per la sua volontà di dialogo e di moderazione”.
Trentin riavvolge il filo della memoria, nell’ultimo tratto del suo impegno e della sua vita, proprio attorno alla figura di quello che considerava “non solo un grande dirigente sindacale” ma anche “un grande dirigente politico”. Avrebbe voluto combattere “la mummificazione” cui è stato sottoposto l’inventore del Piano del lavoro, nella convinzione che solo ripartendo da lui, le forze socialiste potessero, e forse ancora possono, uscire dalla palude.
Oggi , la sua esortazione suona come un lascito testamentario: “Riconsiderare la storia della Cgil di Di Vittorio dal 1945 ad oggi sotto un nuovo punto di vista, quello della ricostruzione faticosa e contrastata di un sindacalismo non corporativo e di un sindacato che si prospetta come un soggetto politico non subordinato ai partiti ma capace di dialogare con loro in ragione della sua autonomia politica e culturale, riconoscere l’autonomia dei processi unitari nel sindacato ma anche la portata che questi processi possono avere per lo sviluppo dell’Italia repubblicana e la difesa creativa della nostra costituzione. Questo vuol dire rimettere Giuseppe Di Vittorio al suo posto nella storia politica e sociale del nostro paese”.
Sono parole scritte l’8 agosto 2006, le ultime dei Diari. Quel mese, il 22, ebbe un rovinoso incidente con la sua bicicletta mentre si trovava in vacanza nell’amato San Candido. La caduta gli provocò un grave trauma cranico e una lunga infermità. Un anno dopo, il 23 agosto 2007, la morte.
Bruno Trentin temeva di essere incompreso e questo lo faceva soffrire molto. “So di parlare ai sordi e di riflettere per me stesso”. “Ma continuerò finché avrò fiato, perché non so fare altro”. “Acqua che cola sulla roccia liscia, impenetrabile”. Almeno in questo, si sbagliava. Siamo qui, come auspicano Ilaria Romeo e Andrea Ranieri, a leggerlo, a studiarlo, a capirlo. E a rimpiangerlo.
Marco Cianca