A che gioco sta giocando ArcelorMittal? La domanda è più che legittima, visto che i comportamenti messi in atto, nel nostro Paese, dal colosso franco-indiano dell’acciaio, per tramite della sua controllata ArcelorMittal Italia, appaiono, quanto meno, contraddittori.
Da un lato, infatti, AM Italia continua a sfornare piani industriali pluriennali relativi a ciò che intende fare dell’ex gruppo Ilva. Ovvero del maggior gruppo siderurgico italiano dei cui “complessi aziendali” AM Italia è attualmente affittuaria nella prospettiva di perfezionarne l’acquisto entro il 2023. Non solo. Dopo i guasti provocati dall’emergenza coronavirus, che – a livello globale – ha colpito, direttamente e indirettamente, anche il mondo dei produttori di acciaio, la stessa ArcelorMittal, come è emerso lunedì scorso, chiede al Governo italiano finanziamenti per un miliardo e mezzo di euro; parte come erogazioni a fondo perduto, e parte come garanzie pubbliche relative a specifiche linee di credito.
Dall’altro lato, invece, AM Italia assume atteggiamenti e fa annunci che sembrano volti più a contrariare e perfino a irritare i suoi interlocutori italiani, dalle piccole e medie imprese dell’indotto tarantino ai Ministri più dialoganti del Governo Conte 2 – come Gualtieri, responsabile dell’Economia – che non a stabilire con tali interlocutori rapporti costruttivi.
E qui si va dal taglio di 5.000 posti di lavoro previsto dal nuovo piano industriale inviato al Governo nel pomeriggio di venerdì 5 giugno, al rinvio delle ispezioni degli impianti tarantini richieste dai Commissari dell’Amministrazione straordinaria, il cui avvio è stato dilazionato di una settimana, da lunedì 1° giugno alla giornata di lunedì 8 giugno. Per non parlare dello stato di abbandono in cui versa, sempre a Taranto, l’Altoforno 5 e della lentezza con cui procedono le opere di ambientalizzazione.
Ne segue che fra osservatori e commentatori diventano sempre più numerosi quelli che pensano che, al di là dei piani presentati, la vera intenzione di ArcelorMittal sia quella di abbandonare il nostro Paese. Mentre, fra i più esasperati, Rocco Palombella, che oltre ad essere attualmente il Segretario generale della Uilm, il sindacato metalmeccanici della Uil, è stato in passato un dipendente del siderurgico tarantino, sabato 6 giugno è arrivato a dichiarare che “ArcelorMittal deve essere cacciata immediatamente”. E mentre, ancora lunedì 8, il Consiglio di fabbrica dello stesso stabilimento, la più grande acciaieria sita in Europa, ha finito per prendersela con il secondo Esecutivo guidato da Giuseppe Conte, definendo “inaccettabile” l’atteggiamento di chi, come il Governo, “continua a trattare con ArcelorMittal”, ovvero con “una controparte che ha dato dimostrazione di essere un soggetto inaffidabile che non rispetta gli impegni sottoscritti, continuando a rinviare gli investimenti sulle innovazioni tecnologiche” e, addirittura, “non garantendo la manutenzione degli impianti”.
Insomma, grande è la confusione sotto il cielo, ma la situazione, al contrario di ciò che pensò, in tutt’altra occasione, Mao Tse-tung, non è eccellente. Fatto sta che non si capisce più se il sistema politico italiano, includendo in tale definizione oltre al Governo Conte 2 anche la Regione Puglia e il Comune di Taranto, a guida Pd, o le Regioni Liguria e Piemonte, a guida Centro-destra, voglia imporre ad ArcelorMittal di restare in Italia, anche se, per così dire, alle “nostre” condizioni; o se invece, sotto-sotto, più soggetti di tale sistema, dai parlamentari più fondamentalisti del Movimento 5 Stelle, a piddini anomali come il Presidente della Regione Puglia, Emiliano, non coltivino, in cuor loro, la speranza che sia la stessa ArcelorMittal ad assumere l’iniziativa di togliere l’incomodo.
In questa situazione non facile da decifrare, conviene dunque ripartire dal nostro interrogativo iniziale: a che gioco gioca, ArcelorMittal? Cosa vuole veramente fare, il colosso franco-indiano, basato – peraltro – a Londra? Vogliono restare alle loro condizioni? O vogliono andarsene, magari con la subordinata di farlo senza doversi assumere lo scomodo ruolo di chi va via sbattendo la porta e spera quindi, in cuor suo, di essere sospinto verso la medesima porta dalla scortesia degli altri?
Azzarderei una risposta: per adesso, un po’ l’una e un po’ l’altra delle due ipotesi.
Dico questo perché sono convinto che all’inizio la volontà di acquisire il gruppo Ilva nascesse da una lucida decisione strategica. Non è infatti pensabile che un attore industriale globale che, come ArcelorMittal, abbia raggiunto e sia solidamente insediato al primo posto nella classifica mondiale dei produttori di acciaio, decida di acquistare un gruppo siderurgico insediato nel secondo paese manifatturiero d’Europa, gruppo che possiede altresì la più grande acciaieria della stessa Europa, senza che una tale decisione non sia stata più che attentamente vagliata.
Avendo dunque assunto questo intendimento come intendimento strategico, i Mittal hanno probabilmente fatto buon viso a cattivo gioco quando, non essendo riusciti a chiudere l’accordo con i sindacati sotto il Governo Gentiloni, hanno accettato di firmare, sotto il Governo Conte 1, il famoso accordo del 6 settembre 2018. Ovvero quell’accordo che faceva salire gli oneri occupazionali che l’Azienda acquirente assumeva su di sé, fino ai 10.700 lavoratori da assumere direttamente dal bacino dei dipendenti ex-Ilva, più l’obbligo di offrire una proposta occupazionale a quegli altri lavoratori ex-Ilva – 1.800 alla data del 6 settembre 2018 – che, entro il 2023, ovvero al momento del perfezionamento dell’acquisto del Gruppo, risultassero ancora a carico dell’Amministrazione straordinaria.
Forse, i Mittal non hanno mai veramente creduto all’ipotesi che la ex Ilva, una volta che fosse stata da loro acquisita e venisse da loro guidata, potesse sopportare un simile carico occupazionale. Ma chissà, avranno forse pensato che in quel momento quello era il passo che andava fatto, anche perché la legge italiana impone la necessità di un accordo nel caso del cosiddetto affitto di ramo d’azienda. E dunque l’hanno fatto. Nella speranza, da un lato, di poter effettivamente arrivare a produrre in Italia 8 milioni di tonnellate annue di acciaio e, dall’altro lato, di poter trovare in futuro delle soluzioni occupazionali valide per i lavoratori che, a fine processo, fossero eventualmente risultati in soprannumero.
Le cose, però, non sono andate così. Mentre già nel corso del 2019, e dunque ben prima che esploda l’emergenza coronavirus, comincia a manifestarsi un rallentamento della domanda mondiale di acciaio, l’ambiente tarantino si rivela più ostile nei confronti dei nuovi arrivati di quanto essi non immaginassero. Ostili i poteri pubblici locali, dal già citato Presidente Emiliano al Sindaco tarantino Melucci. Ostile la Magistratura, con un rincorrersi di sequestri di parti vitali dell’impianto, dall’Altoforno 2 a uno dei moli di attracco per le navi che dovevano rifornire il siderurgico di materie prime. Ostile poi, cosa probabilmente inattesa, la maggioranza di governo giallo-verde che, su spinta dei pentastellati, ha inopinatamente cancellato il famoso scudo penale, immaginato dai Governi di Centro-sinistra della XVII legislatura a difesa dei Commissari straordinari, e inizialmente esteso a protezione dei manager di ArcelorMittal.
Fatto sta che è qui, a fine estate del 2019, che si verifica la svolta. Il Governo Conte 2 sostituisce il Conte 1. Dopo le intemerate da spiaggia di Salvini, che ha fatto di tutto per rompere l’alleanza col Movimento 5 Stelle, il Pd entra nella compagine governativa al posto della Lega. In teoria, il Pd dovrebbe portare con sé una ventata di ragionevolezza, ma sottovaluta la questione dello scudo penale, che altro non è se non la punta dell’iceberg dell’anti-industrialismo grillino.
ArcelorMittal cogle la palla al balzo. In autunno, apre, al Tribunale di Milano, un’azione legale di recesso dal contratto di acquisto provocata da un’inadempienza contrattuale grave addebitata al Governo. Il rapporto tra Governo e Azienda acquirente si inabissa in un estenuante contenzioso legale fino a che, il 4 marzo, sempre al Tribunale di Milano, ArcelorMittal ritira la sua azione legale nel momento stesso in cui anche i Commissari dell’Amministrazione straordinaria ritirano la loro contro-azione.
Cosa è accaduto? E’ accaduto che Governo e ArcelorMittal hanno raggiunto, lontano dai Ministeri e, tecnicamente, all’insaputa dei sindacati, un nuovo accordo in base al quale dovrà essere redatto un nuovo piano industriale, più green di quello previsto dall’accordo del 2018. Non solo, il nuovo accordo prevede anche un ingresso nella compagine societaria della mano pubblica. Ingresso non meglio definito ma volto, a quanto si apprende, a favorire la svolta ambientalista del siderurgico tarantino.
Tutto bene, dunque? Fino a un certo punto. Perché l’accordo prevede anche, e questo è il punto, che il nuovo piano debba essere perfezionato entro la fine di novembre 2020. Se entro tale data non sarà raggiungibile un accordo definitivo, l’azienda acquirente potrà fare le valigie pagando una penale la cui entità è già definita: 500 milioni di euro.
Ora, ovviamente, 500 milioni non sono bruscolini. Ma il punto è un altro. Nella distrazione generale, indotta dall’incipiente emergenza coronavirus, pochi se ne accorgono. Fra questi pochi c’è un giornalista del Sole 24 Ore, Paolo Bricco, che, sulle pagine del suo giornale, coglie il punto. Lo dico con parole mie. Sulla testa dell’azienda acquirente non pende più la spada di Damocle di una minaccia legale di entità sconosciuta. La cifra fissata è alta, ma, appunto, è quella ed è quindi conoscibile e valutabile. Per certi aspetti, è una minaccia spuntata.
Torniamo a bomba, ovvero al nostro interrogativo iniziale. L’impressione è che con l’accordo del 4 marzo ArcelorMittal si sia messa nella posizione di quel giocatore di scacchi che riesce audacemente a portare la propria Regina in una posizione verticale rispetto a un Alfiere dell’avversario e in tralice rispetto a una sua Torre. Se il malcapitato avversario salva la Torre, la Regina può, quanto meno, eliminare l’Alfiere. Se l’avversario sbaglia mossa, e salva l’Alfiere, la Regina può addirittura espugnare la Torre nemica, infliggendo all’avversario una più grave perdita.
Fuor di metafora. L’impressione è che ArcelorMittal stia portando avanti un gioco non privo di audacia. Con i suoi comportamenti aggressivi, minaccia l’Esecutivo italiano di andarsene, ben sapendo che il Governo Conte 2 non si è fin qui dotato di nessun piano B.
Quindi, se tutto andrà male, ArcelorMittal andrà via, sapendo che la cosa peggiore che potrà capitargle sarà quella di dover pagare quella tal penale. Se invece il Governo scenderà a più miti consigli, ArcelorMittal resterà a Taranto, ma avendo ottenuto il consenso del poter politico al perseguimento di obiettivi produttivi ridimensionati (da 8 a 6 milioni di tonnellate annue di acciaio). Obiettivi che, peraltro, porteranno con sé una carico occupazionale anch’esso ridimensionato: dai 10.700 addetti pattuiti il 6 settembre 2018, si scenderà a 7.500, come prevede il nuovo piano, quello illustrato lunedì dal Governo ai sindacati. E quanto ai 1.800 lavoratori in forza all’Amministrazione straordinaria, neanche a parlarne. In pratica, come sottolineato da Francesca Re David, segretaria generale della Fiom-Cgil, col nuovo piano ArcelorMittal Italia si fa uno sconto occupazionale pari a 5.000 occupati in meno rispetto all’accordo del 2018.
Ma non si è ancora detto tutto. Perché, mentre l’accordo del 2018 era una classica intesa sindacale a tre, raggiunta fra ArcelorMittal, Governo e sindacati, quello del 4 marzo 2020 è un accordo fra due parti: azienda acquirente e Governo in quanto dante causa dell’Amministrazione Straordinaria. Come si è già detto, in quella occasione i sindacati non furono neppure convocati. Col bel risultato che adesso i lavoratori ce l’hanno più col Governo, che non riesce ad assicurare loro un certo futuro occupazionale, che non con l’Azienda acquirente.
A oggi, la situazione della vicenda della ex Ilva può dunque essere forse riassunta così. Da una parte, c’è il Governo che, al di là dei meriti di singoli Ministri, si presenta, rispetto a questa stessa vicenda, come un soggetto indeciso a tutto. Dall’altra c’è l’azienda acquirente, ovvero un soggetto che si è dato un obiettivo principale, restare alle proprie condizioni, ma si è anche abilmente precostituito una possibile via di fuga, quella della penale che potrebbe scattare a fine anno.
Fuori scena, e questo è più drammatico che se fossero sul proscenio, ci sono i sindacati, che sono stati tagliati fuori dall’accordo del 4 marzo con conseguenze forse più gravi per il Governo che non per gli stessi sindacati. I quali, comunque, sono stati messi in una situazione che rende difficilissimo il loro mestiere. Ovvero quello di esercitare la rappresentanza sociale dei lavoratori, cercando di contribuire alla costruzione di soluzioni ragionevoli che tutelino i propri rappresentati.
Infine, fuori scena c’è anche l’interesse collettivo di un grande paese industriale, la cui industria metalmeccanica è l’ossatura del suo sistema produttivo. Ma senza acciaio, non si producono auto, né camion, né treni, né navi, né lavatrici, né lavapiatti, né macchine utensili, né impianti industriali, né tondino per il cemento armato. Né molte altre cose.
@Fernando_Liuzzi