Qualche giorno fa è stato presentato in Cgil Nazionale il libro di Guido Iocca su Giacinto Militello (editrice Ediesse), dal titolo molto significativo di “Passione e competenza”, che ben raffigura la storia e l’impegno sindacale e civile di Giacinto fin da quando, da giovane laureato in giurisprudenza, decise di lavorare per il riscatto dei braccianti siciliani aderendo alla Cgil. Ne è uscito un confronto molto interessante sulla figura di Militello, sul ruolo storico del sindacato dei braccianti nel dopoguerra, su quello operaio dagli anni 60 e sul sindacato di oggi. Una ricca discussione, a partire dalla puntuale introduzione di Angelo Lana, con Guido Iocca, Mimmo Carrieri, Ilaria Romeo, Giuliano Amato e Maurizio Landini che ne ha tratto le conclusioni. (Chi l’avesse persa può ascoltarla integralmente nel sito di Radio Radicale).
La richiamo volentieri perché nel confronto, molto ricco e articolato, c’è stato un passaggio interessante e singolare tra Giuliano Amato e Maurizio Landini sul rapporto tra conflitto, contrattazione e partecipazione nell’attività sindacale. Paradossalmente, ma non troppo, Amato ha sostenuto che il sindacato non deve dimenticare di rappresentare interessi di parte, quelli del lavoro, ed è questa parzialità che lo deve spingere a fare trattative e raggiungere accordi con chi rappresenta gli interessi (altrettanto parziali?) dell’impresa. Una visione classica delle dinamiche sindacali che, almeno in Italia, è stata ampiamente praticata fino agli anni della crisi, e che non si può certo dire la Cgil abbia dimenticato. A meno che Amato non volesse segnalare le insufficienti tutele salariali e dei diritti che sono, appunto, il portato più negativo della crisi (in Italia e in molti paesi europei), contro cui Cgil Cisl e Uil, sempre più unitariamente, intendono battersi. Oppure non intendesse, nel sottolineare la parzialità della rappresentanza, confinare l’attività sindacale alla sola contrattazione delle condizioni del lavoro dipendente. In una sorta di “ne sutor ultra crepidam”, rivolto a chi, come la Cgil, vuole sperimentare forme di presenza organizzata più larga di quella tradizionale, dovendo corrispondere nuove tutele a un lavoro più povero e socialmente meno riconosciuto che nel passato: un lavoro che, per la prima volta negli ultimi 50 anni, non garantisce più la piena cittadinanza a chi lo svolge.
Nell’intervento finale, Maurizio Landini ha invece sottolineato la necessità di rilanciare il tema della “partecipazione consapevole” del lavoro ai processi produttivi e alla loro organizzazione, come uno degli assi strategici della contrattazione. A partire soprattutto dai settori ad alta innovazione tecnologica.
Sbaglieremmo a pensare che le due logiche (Amato e Landini) siano in contrapposizione netta fra loro: la partecipazione è anche un fattore che può favorire il buon esito della contrattazione (basti pensare alle questioni dell’ambiente e della sicurezza sul lavoro), oltre che un obiettivo di valorizzazione del lavoro in sé. Se fossero in antitesi fra loro, se una mirasse a un ruolo sindacale più ristretto e classico e l’altra più largo e innovativo, io starei convintamente con l’impostazione del Segretario Generale della Cgil. A partire dalle nuove competenze presenti nel lavoro (dipendente e para dipendente) delle imprese industriali e di servizio a più forte innovazione tecnologica, fino alle aziende di media dimensione in cui è la combinazione del sapere e del saper fare (e non la loro separazione come nel vecchio modello fordista) che produce il valore aggiunto e la capacità competitiva dell’impresa. E bisogna ricordare (come ha fatto Landini) che se negli ultimi decenni si è praticata poca partecipazione nella contrattazione con le imprese è dovuto più a una indisponibilità industriale (e confindustriale) che non a ritrosia sindacale. Unica attenuante al diniego delle imprese il fatto che spesso (non la Cgil) si è preferito parlare di partecipazione sindacale ai consigli di amministrazione piuttosto che di partecipazione dei lavoratori all’organizzazione della produzione.
L’ideologia liberista dominante (non solo a destra) ha in questi decenni descritto il lavoro come un fattore residuale del processo di accumulazione economica e finanziaria e ha immaginato che la crescita potesse esistere a prescindere dalla quantità e qualità del lavoro che produce. Spetta al sindacato, ormai unico soggetto in campo con una concezione non liberista del rapporto tra investimenti, sviluppo, occupazione e benessere, ribaltare questa logica e dimostrare che più c’è lavoro, più il lavoro è di qualità e più solida e sostenibile sarà la crescita. La conquista sindacale di maggiore partecipazione del lavoro all’organizzazione della produzione nelle imprese merita davvero di essere uno degli indirizzi portanti delle stagioni di rinnovo dei contratti nazionali e, ancor di più, di espansione della contrattazione di secondo livello.
E poi, per dirla in sintesi: se il lavoro sostiene con le tasse gran parte del bilancio dello Stato, se determina gran parte della produttività delle aziende e del sistema, è ora che torni ad avere un ruolo riconosciuto nelle imprese, nella società e nella politica.
Gaetano Sateriale