Nel 1988 Benny Morris, storico, giornalista, allora corrispondente del Guardian e riservista dell’esercito israeliano, rifiutò di prestare servizio nei territori occupati del West Bank, dove era scoppiata l’ennesima rivolta. “No, mi spiace. Quello che stiamo facendo è criminale. Mi rifiuto di esserne complice. Dobbiamo andarcene da lì”, affermò durante il processo militare. Fu condannato a tre settimane di reclusione. In carcere, scrisse un breve diario per raccontare le umiliazioni della detenzione e i rapporti con le guardie, con gli altri obiettori di coscienza e, soprattutto, con gli ostinati bellicisti.
Annota il 23 settembre: “Più tardi ho il mio primo scontro politico serio. È con Darwish, un ebreo curdo che dice rabbiosamente: avrebbero dovuto darti un anno, non tre settimane. Dovremmo ucciderli tutti, gli arabi. Metterli al muro e farli fuori. Mimando un mitra con le mani, inizia a sparare raffiche tutto intorno. Dovremmo fargli quello che Hitler ha fatto a noi, perché è quello che loro vorrebbero fare a noi. E voi di <Pace ora>, voi sinistroidi, fate tutti il loro gioco, il gioco dell’Olp. Come dovremmo trattare della gente che fracassa la testa di un bambino ebreo di cinque mesi a sassate? Se loro ci tirano pietre, noi dovremmo sparargli”.
Commenta Morris: “E’ pazzesco che un ebreo, pure se è infervorato in una discussione, pure se sefardita e forse toccato solo alla lontana dall’Olocausto, possa parlare allegramente di sterminio e augurarsi che Israele si comporti come Hitler. Israele è un Paese che ha smarrito la propria coscienza”.
Il breve testo è contenuto nell’ampio volume “1948” che l’obiettore scrisse qualche anno dopo la detenzione e nel quale racconta la guerra con gli arabi che accompagnò la nascita della nuova Nazione, sorta sotto la spinta ineludibile del sionismo. Furono settecentomila i profughi palestinesi scappati o cacciati con la forza. Oggi i “rifugiati” sono oltre quattro milioni.
Morris è capofila di quella nuova corrente storiografica israeliana che rifiuta ogni enfasi propagandista e patriottica, basandosi solo su fonti e documenti. Quando stava lavorando alla sua opera, esprimeva un certo ottimismo, specie dopo gli accordi di Oslo del 1993 che apparivano un primo passo verso la pace: “I palestinesi sembravano aver abbandonato quell’obiettivo che sognavano da decenni – distruggere e soppiantare lo Stato ebraico – e gli israeliani avevano abbandonato il loro sogno di un “Grande Israele” esteso dal Mediterraneo al Giordano”. Ma ben presto la fiducia in un futuro senza armi svanì come neve al sole e così le successive edizioni del libro sono state contrassegnate da un “pessimismo assoluto”. I fatti di questi giorni gli stanno dando, purtroppo, piena ragione.
Il punto di svolta, da un percorso virtuoso alla strada dell’inferno, lo fa risalire al fallimento degli accordi di Camp David, nel 2000, quando Bill Clinton, Ehud Barak (appena succeduto al primo governo Netanyahu) e Yasser Arafat non riuscirono a raggiungere l’intesa caldeggiata dal presidente statunitense. Morris attribuisce la maggior colpa di quell’insuccesso, le cui conseguenze le abbiamo oggi sotto gli occhi, al leader dell’Olp, alfiere del “diritto al ritorno”, giudicato bugiardo, inattendibile, doppiogiochista. Disse no alle offerte, che il nostro storico ritiene più che adeguate, e fu subito Intifada.
Dall’altra parte, questo rinvigorì la destra israeliana e gli oltranzisti ultraortodossi. Ai lanci di pietre e di razzi, agli attentati kamikaze, agli atti di terrorismo, hanno fatto seguito reazioni sempre più brutali. Ecco la tragica presa d’atto dell’atavica ostilità tra “due gruppi etnici, o popoli ostili, con una memoria storica reciprocamente incompatibile”. La diatriba tra chi c’era prima risale all’alba della civiltà, senza alcun costrutto. E le ambizioni territoriali si dispiegano in un’area geografica molto ridotta. Da qui la conclusione che “solo la separazione in due entità etnico-politiche può condurre alla pace. Senza, ci sarà una guerra perpetua finché uno dei due popoli rivali verrà gettato in mare o nel deserto”.
Poi è arrivato il 7 ottobre, l’assalto inusitato di Hamas, i morti, le violenze, gli stupri, gli ostaggi. E nella striscia di Gaza ha preso il via il biblico massacro che abbiamo ancora sotto gli occhi.
Il conto delle vittime aumenta, aumenta, aumenta. I racconti dell’orrore, dal malato di dialisi che muore mentre cerca un ospedale alla bambina salvata da sotto le macerie e poi saltata in aria con tutta l’ambulanza, aggiungono lo sgomento all’indignazione. Ma non si vedono vie d’uscita, mentre cresce nel mondo l’antisemitismo. La soluzione dei due Stati sembra ormai impraticabile, anche perché in Cisgiordania ci sono 750 mila coloni israeliani che non ci pensano proprio a tornare indietro e la Striscia sta diventando un cimitero all’aperto, le rovine come lapidi.
Nessuno può dire come andrà a finire. Israele sente sempre più minacciata la propria esistenza e vorrebbe cancellare, letteralmente, ogni potenziale nemico mentre gli arabi, più o meno esplicitamente, e non solo l’Iran, vorrebbero riscattare le tante sconfitte subite e annientare gli invasori, come avvenne con i crociati.
Morris ha da tempo una visione apocalittica: “La Palestina diventerà un deserto nucleare, che non potrà più fungere da patria per nessuno dei due popoli che se la contendono”.
Speriamo che Jahvè e Allah si fermino un attimo prima dello scontro finale.
Marco Cianca