di Gianni Arrigo – Professore Associato di Diritto del Lavoro, all’Università di Siena
1.- Premessa. Obiettivi della Dir. dell’11 marzo 2002, n. 2002/14. E’ passata quasi inosservata (in parte oscurata dalle vicende anche drammatiche connesse alla trattativa tra Governo, sindacati e associazioni datoriali) la notizia dell’approvazione – da parte del Consiglio dell’Unione europea e del Parlamento europeo- della direttiva n. 2002/14, dell’11 marzo 2002, “che istituisce un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori nella Comunità europea”. Si tratta di una normativa che presenta un certo interesse, anche se la sua formulazione a tratti confusa sembra destinata a suscitare problemi interpretativi sia nella fase di recezione che in quella di applicazione. Essa può introdurre innovazioni rilevanti in alcuni degli ordinamenti nazionali, non solo dei quindici Stati membri (compreso il nostro) ma soprattutto, e in prospettiva, dei nuovi Stati che entreranno a far parte dell’ Unione europea.
La direttiva n. 2002/14 pone un quadro normativo comune di riferimento per gli Stati membri nella disciplina dell’informazione e della consultazione dei lavoratori, che integra ed arricchisce i diritti già esercitabili in base alla normativa comunitaria e nazionale. Con la Dir. n. 2002/14 trova, fra l’altro, applicazione più compiuta (anche se indiretta) il diritto enunciato nell’ art. 27 della Carta di Nizza, secondo cui “ai lavoratori o ai loro rappresentanti devono essere garantite, ai livelli appropriati, l’informazione e la consultazione in tempo utile, nei casi e alle condizioni previsti dal diritto comunitario e dalle legislazioni e prassi nazionali”.
La direttiva muove dalla premessa secondo cui “l’esistenza di quadri giuridici a livello comunitario e nazionale, intesi a garantire il coinvolgimento dei lavoratori nell’andamento delle imprese e nelle decisioni che li riguardano, non ha sempre impedito che decisioni gravi che interessavano i lavoratori fossero adottate e rese pubbliche senza che fossero state preventivamente osservate procedure adeguate di informazione e consultazione” (6° considerando). Il legislatore comunitario, sulla scorta di Rapporti di esperti elaborati su incarico della Commissione, constata infatti che le discipline sull’informazione e sulla consultazione dei lavoratori esistenti a livello comunitario e nazionale sono spesso orientate al trattamento a posteriori dei processi di cambiamento, anziché alla prevenzione degli stessi o dei rischi a loro connessi (13° Considerando). In base a queste esperienze negative il legislatore comunitario ha ritenuto di dover intervenire a migliorare e sviluppare i diritti in parola, definendo prescrizioni minime (18° considerando) che, oltre che fissare principi, regole e modalità comuni agli Stati membri, in tema di informazione e consultazione, rispondano alla “strategia dell’occupazione della Comunità, imperniata sui concetti di ‘anticipazione’, ‘prevenzione’ e ‘occupabilità’, che la Comunità desidera integrare quali elementi fondamentali in tutte le politiche pubbliche suscettibili di incidere positivamente sull’occupazione, anche a livello delle imprese, attraverso l’intensificazione del dialogo sociale, al fine di facilitare un cambiamento coerente con il mantenimento dell’obiettivo prioritario dell’occupazione” (10° considerando). Per rendere concreta questa strategia, il legislatore comunitario ritiene necessario “intensificare il dialogo sociale nell’ambito dell’impresa per favorire l’anticipazione dei rischi, sviluppare la flessibilità dell’organizzazione del lavoro e agevolare l’accesso dei lavoratori alla formazione nell’ambito dell’impresa in un quadro di sicurezza, promuovere la sensibilizzazione dei lavoratori sulle necessità di adattamento, aumentare la disponibilità dei lavoratori ad impegnarsi in misure e azioni dirette a rafforzare la loro occupabilità, promuovere il coinvolgimento dei lavoratori nella conduzione dell’impresa e nella determinazione del suo futuro, nonché rafforzare la competitività dell’impresa” (7° considerando).
2.- Informazione in tempo utile. Almeno nei “considerando”, la Dir. 2002/14 evidenzia bene, dunque, l’importanza dell’informazione e della consultazione preventiva dei lavoratori, i quali devono essere informati e consultati nel momento in cui si avverte l’inizio di un processo di cambiamento derivante da fattori esterni all’impresa o di un processo di ristrutturazione avviato per esigenze interne alla impresa. In base a tali premesse, l’informazione e la consultazione in tempo utile (come prescrive l’art. 27 della Carta di Nizza, nonché una consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia) costituiscono una condizione preliminare del successo dei processi di ristrutturazione e di adattamento delle imprese alle nuove condizioni indotte dalla globalizzazione dell’economia” (9° considerando).
3.- Basi giuridiche e ratio della Dir. 2002/14. Base giuridica della direttiva è l’art. 137, par. 2, del Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE). La Direttiva fa anche riferimento al punto 17 della Carta sociale del 1989 (“Occorre sviluppare l’informazione, la consultazione e la partecipazione dei lavoratori, secondo modalità adeguate, tenendo conto delle prassi vigenti nei singoli Stati membri […]”). Obiettivo della direttiva è la previsione di un “quadro generale che stabilisca prescrizioni minime riguardo all’informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese o stabilimenti situati nella Comunità” (art. 1, par. 1).
“Le modalità di informazione e di consultazione sono definite e applicate, in conformità della legislazione nazionale e delle prassi in materia di rapporti di lavoro vigenti nei singoli Stati membri, in modo da garantire l’efficacia dell’iniziativa” (art. 1, par. 2; Cfr. anche il 23° considerando). La Direttiva fa salvi i sistemi nazionali che prevedono disposizioni più favorevoli per i lavoratori rispetto a quelle minime previste dalla proposta di Direttiva (17° e 18° considerando). In questa prospettiva si prevede che, “in occasione della definizione o dell’applicazione delle modalità di informazione e di consultazione, il datore di lavoro e i rappresentanti dei lavoratori operano in uno spirito di cooperazione nel rispetto dei loro diritti ed obblighi reciproci, tenendo conto nel contempo degli interessi dell’impresa o dello stabilimento e di quelli dei lavoratori” (art. 1.3). spirito di cooperazione, inteso come obbligo di buona fede e correttezza, analogo a quello “spirito costruttivo” che deve animare le negoziazioni tra Delegazione speciale di negoziazione e le imprese nella direttiva sui Comitati aziendali europei (Dir. 94/45) e nella direttiva sulla partecipazione dei lavoratori nella Società europea (Dir. 2001/86).
Per valorizzare l’autonomia collettiva, la Dir. 2002/14 si orienta prevalentemente sulle rappresentanze interne dei lavoratori, attive nei luoghi di lavoro: a tal fine essa promuove la costituzione di rappresentanze dei lavoratori abilitate a tali attività (ma non solo), auspicando un regime legale, generale e permanente (art. 10) valido per gli stabilimenti che impiegano almeno venti “addetti”, e per le imprese che impiegano almeno cinquanta addetti salvo norme nazionali più favorevoli.
4.- Ambito di applicazione. Definizioni. Come ricordato, la Dir. n. 2002/14 riguarda i lavoratori dipendenti da imprese nazionali. L’ambito di applicazione, secondo l’art. 3, par. 1, è apparentemente esteso potendo variare, a seconda della scelta operata dagli Stati membri, con riferimento all’impresa, che impieghi in uno Stato membro almeno 50 addetti, oppure allo stabilimento, che impieghi in uno Stato membro almeno 20 addetti. L’individuazione di soglie differenti per l’esercizio dei diritti di informazione e consultazione (frutto del compromesso tra posizioni attestate rispettivamente sulla soglia dei cinquanta e su quella dei venti dipendenti) non sembra agevolare né il legislatore né le parti sociali chiamati a trasporre la direttiva e ad applicarla, rendendo più difficile in tal modo l’esercizio “in tempo utile” dei diritti in argomento.
Si consideri in particolare che l’individuazione della soglia numerica è legata a nozioni (quali l’impresa e lo stabilimento) di non facile interpretazione, a cui contribuiscono assai poco le definizioni fornite nell’art. 2 della direttiva. Secondo queste, infatti, devono intendersi per imprese “le imprese pubbliche o private che esercitano un’attività economica, che perseguano o meno fini di lucro, situate sul territorio degli Stati membri” (lett. a); mentre è stabilimento “una unità di attività definita conformemente alle leggi e prassi nazionali situata sul territorio di uno Stato membro e nella quale l’attività economica è svolta in modo stabile con l’ ausilio di risorse umane e materiali” (lett. b). Ora, se si considera l’obiettivo “prevenzionale” o “anticipatore” a cui dovrebbero essere orientate le procedure di informazione e consultazione, il campo di applicazione non sembra più così ampio. A parte le eccezioni consentite per il periodo transitorio (art. 10), esso appare infatti limitato alle “imprese, pubbliche o private, che esercitano un’attività economica, che perseguano o meno fini di lucro, situate sul territorio degli Stati membri” (art. 2, lett. a). Possono, invece, essere esclusi dal rispetto delle norme della direttiva “le imprese o gli stabilimenti che perseguono direttamente e principalmente fini politici, di organizzazione professionale, confessionali, benèfici, educativi, scientifici o artistici, nonché fini d’ informazione o espressione di opinioni, per queste imprese gli Stati membri, “nel rispetto dei principi e degli obiettivi” della direttiva, possono prevedere “disposizioni specifiche […] a condizione che, alla data di entrata in vigore della direttiva, tali disposizioni particolari esistano già nel diritto nazionale”. Restano così escluse del tutto dal campo di applicazione della Direttiva, senza nemmeno il conforto del regime particolare ora citato, varie categorie di datori di lavoro, a cominciare da quelli pubblici che forniscono attività e servizi non economici, ma che non rientrano tra quelli previsti dall’art. 3, par. 2 della Direttiva. Le esclusioni ed i regimi particolari destano varie perplessità alla luce del ricordato obiettivo prevenzionale (o anticipatore) della Direttiva, riferito alla occupazione e alla “occupabilità” dei lavoratori.
Come accennato, la Direttiva rimette ai legislatori nazionali la determinazione delle modalità di calcolo degli “addetti” (e non “lavoratori”, intendendosi comunque per “lavoratore”, secondo l’art. 2, lett. d, della direttiva, “ogni persona che, nello stato membro interessato, è tutelata come un lavoratore nell’ambito del diritto nazionale del lavoro e conformemente alle prassi nazionali”).
La direttiva fornisce anche le nozioni di informazione e di consultazione. Per “informazione” si intende “la trasmissione di dati da parte del datore di lavoro ai rappresentanti dei lavoratori per consentir loro di prendere conoscenza della questione trattata e esaminarla” (art. 2, lett f). Per “consultazione” si intende invece “lo scambio di opinioni e l’instaurazione di un dialogo tra i rappresentanti dei lavoratori e il datore di lavoro (art. 2, lett. g). Queste definizione vanno però integrate con quelle contenute nell’art. 4, paragrafi 2-4, che tratta delle “modalità dell’informazione e della consultazione” (infra). Queste definizioni appaiono comunque meno incisive di quelle fornite dalla Direttiva n. 2001/86 (Cfr. l’art. 2, lett. i e j), alle quali forse corrispondeva meglio l’iniziale proposta di Direttiva presentata dalla Commissione.
5.- Caratteri della Dir. 2002/14: effetto utile; sussidiarietà orizzontale; valorizzazione dell’ autonomia collettiva.
Come già accennato, la direttiva indica il quadro generale e di principi dei diritti di informazione e consultazione. L’aspetto più rilevante della nuova disciplina consiste nella maggiore attenzione prestata dal legislatore comunitario alla garanzia dell’esercizio dei diritti di informazione e di consultazione, e quindi al loro impianto procedurale, piuttosto che ai contenuti. Da un lato, i contenuti non possono che conformarsi alla ratio della Direttiva, consistente nella anticipazione (o “prevenzione”) delle crisi occupazionali; dall’altro, l’effettivo conseguimento degli scopi della direttiva deve avvenire mediante modalità appropriate da individuarsi in ambito nazionale, in cui va prestata attenzione alla tempestività e ai livelli di consultazione (art. 4, paragrafi 3 e 4). Viene in tal modo ad essere predeterminato il contenuto essenziale delle disposizioni nazionali. Qui sta il cuore e lo scopo dell’armonizzazione, che torna utile al momento di valutare il conseguimento dell’effetto utile, e quindi l’adempimento, oltre che degli Stati membri (nella fase di recezione), dei soggetti obbligati, nella fase di applicazione.
La scelta di adottare una normativa di armonizzazione per principi, che salvaguardasse le prassi nazionali vigenti (Cfr. il punto 17 della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali, del 1989), ha consolidato la valorizzazione dell’autonomia collettiva – in alternativa all’intervento legislativo diretto – nella fase applicativa: difatti il legislatore comunitario autorizza gli Stati membri a rimettere alle parti sociali “al livello adeguato, anche a livello di impresa o di stabilimento, il compito di definire liberamente e in qualsiasi momento […] le modalità di informazione e consultazione dei lavoratori” (art. 5). Gli accordi in tal modo conclusi, nonché gli accordi esistenti alla data […] così come le eventuali proroghe dei medesimi, possono prevedere, nel rispetto dei principi enunciati all’art. 1 e alle condizioni e nei limiti definiti dagli Stati membri, disposizioni diverse da quelle di cui all’ art. 4″. Questa disposizione ricorda gli “accordi di anticipazione”, di cui alla Dir. n. 94/45, sulle procedure di informazione e consultazione nelle imprese di dimensioni comunitarie: essa pertanto non introduce una clausola di esenzione, né autorizza le parti contrattuali a individuare regimi derogatori speciali, ipotesi che, anzi, la direttiva delimita attentamente (si v. l’art. 3.2), ovvero consente solo in via transitoria e a certe condizioni (Cfr. l’art. 10). Oltretutto deroghe ulteriori a quelle consentite vanificherebbero l’effetto utile e violerebbero la clausola di non regresso (art. 9.4).
Suscita invece dubbi il rapporto tra (eventuali) accordi stipulati a livello di impresa (e, addirittura, a livello di stabilimento) e le disposizioni in materia di informazione e di consultazione indicate nell’art. 4. Non si vede come tali accordi possano prevedere disposizioni anche diverse rispetto a quelle indicate all’art. 4, la cui legittimità sarebbe oltretutto vincolata al rispetto dei principi enunciati all’art. 1, nonché a quelli della clausola di non regresso.
6.- Tempi e “livelli”; qualità e funzione delle procedure di informazione e consultazione.
6.1.- L’art. 4.3 stabilisce che l’informazione “avviene ad un dato momento, secondo modalità e con un contenuto appropriati, suscettibili in particolare di permettere ai rappresentanti dei lavoratori di procedere ad un esame adeguato e di preparare, se del caso, la consultazione”. Circa il momento in cui debba avvenire l’informazione, la Direttiva, contraddicendo l’affermazione fatta nel 9° considerando (v. supra), non dice espressamente che l’ informazione debba avvenire “in tempo utile”, ovvero con riferimento a un dato evento o in previsione di un dato rischio, rinviando probabilmente per questo alle normative nazionali (e alla giurisprudenza comunitaria, oltre -beninteso – che ai principi enunciati nella Carta del 1989 e nella Carta di Nizza).
La tempestività dell’informazione (come anche della consultazione) può tuttavia ricavarsi anzitutto dalle modalità di esercizio delle procedure: gli Stati membri, infatti, devono prevedere che l’informazione avvenga “ad un dato momento, secondo modalità e con un contenuto appropriati, suscettibili di permettere ai rappresentanti dei lavoratori di procedere ad un esame adeguato e di preparare, se del caso, la consultazione”
6.2.- In base all’ art. 4.4, la consultazione avviene:
a) assicurando che la scelta del momento, le modalità e il suo contenuto siano appropriati;
b) al livello pertinente di direzione e di rappresentanza, in funzione dell’ argomento trattato;
c) sulla base delle informazioni pertinenti fornite dal datore di lavoro, in conformità dell’art. 2, lett. f), e del parere che i rappresentanti dei lavoratori hanno il diritto di formulare;
d) in modo tale da permettere ai rappresentanti dei lavoratori di avere un incontro con il datore di lavoro e di ottenere una risposta motivata al loro eventuale parere;
e) al fine di ricercare un accordo sulle decisioni che dipendono dal potere di direzione del datore di lavoro di cui al par. 2, lett. c)
7.- Sanzioni (art. 8. “Difesa dei diritti”).
7.1.- La Direttiva obbliga gli Stati membri a predisporre un adeguato apparato sanzionatorio, mediante la previsione di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, in caso di violazione delle disposizioni della Direttiva da parte del datore di lavoro o dei rappresentanti dei lavoratori (art. 8.2). Gli Stati membri devono infatti a disporre “misure idonee in caso di inosservanza della […] direttiva da parte del datore di lavoro o dei rappresentanti dei lavoratori. In particolare, essi si adoperano affinché sussistano procedure amministrative o giudiziarie intese a far rispettare gli obblighi che derivano dalla […] direttiva. Gli Stati membri devono anche disporre “sanzioni adeguate applicabili in caso di violazione delle disposizioni della […] direttiva da parte del datore di lavoro o dei rappresentanti dei lavoratori. Tali sanzioni devono essere effettive, proporzionate e dissuasive” (art. 8, par. 1 e 2). La determinazione delle sanzioni, essendo di competenza dei legislatori nazionali, comporta l’esclusione della possibilità di affidare questo compito all’autonomia collettiva.
Nell’iter legislativo è stata accantonata la previsione di sanzioni più incisive (indicate dalla Commissione nella sua proposta originaria di direttiva) per casi di violazioni gravi degli obblighi di informazione e di consultazione da parte del datore di lavoro, violazioni consistenti nella mancanza totale delle informazioni o nella reticenza a fornirle, o nella loro inesattezza, e tali da provocare conseguenze dirette di modifica sostanziale dei contratti o dei rapporti di lavoro. Le sanzioni previste consistevano nella mancata produzione di effetti giuridici delle decisioni adottate dal datore di lavoro a seguito di quelle violazioni, per tutto il periodo durante il quale persisteva la violazione degli obblighi d’informazione e di consultazione. Si trattava pertanto di inefficacia temporanea, e non certo di illegittimità, che avrebbe colpito interamente e a tempo indefinito l’atto contestato.