Il Pd è in coma profondo. O meglio, la morte cerebrale sembra irreversibile, anche se il corpo dà ancora segni di vita. Che fare? Staccare la spina e prendere atto del decesso? Provare un trapianto del cervello? Donare gli organi, nella speranza che servano per la creazione di un nuovo soggetto politico? Al momento, la strada scelta dagli stolti, presuntuosi, rissosi dirigenti sembra quella di far finta di niente. Vanno avanti, litigando intorno al capezzale del moribondo. Vogliono spartirsi l’eredità, ibernando il malato e illudendo i residui militanti ed elettori che la guarigione è possibile. Ciechi ed irresponsabili. Non stanno giocando solo con la sopravvivenza di un partito erede delle gloriose tradizioni comuniste, socialiste e cristiano sociali. No, qui è in discussione l’esistenza di uno spazio per l’opposizione. La posta è la democrazia.
Congresso sì, congresso no, congresso forse. Ma è già troppo tardi! Solo una discussione ampia, vera, aperta, da indire immediatamente, può aiutare a salvare il salvabile. O a prendere atto che siamo all’accanimento terapeutico e che è preferibile dichiarare il fallimento, magari divedersi, magari ricominciare, magari sognare di nuovo un mondo migliore. Tutto ciò non può certo essere fatto nel chiuso delle consorterie che spadroneggiano o deciso a tavolino durante una cena. Il vuoto pneumatico dei valori ha l’effetto di un buco nero che tutto sta inghiottendo.
Al momento l’insana guerra di leader non lascia spazio alcuno alla proficua battaglia delle idee. Walter Veltroni ha provato a evocare lo spirito largo dell’Ulivo, una nuova sinistra capace di sconfiggere questa destra, “la peggiore destra”. Ma il suo appello è finito nel tritacarne delle lotte di potere, calpestato dai furenti piedi degli irresponsabili duellanti.
Chi scrive, è sempre più convinto che Matteo Renzi debba onorare un enorme debito di sincerità, se vuole che qualcosa di buono della sua segreteria e del suo esecutivo sia ricordato. All’inizio è apparso un innovatore, voleva ringiovanire il partito, mandare in soffitta i dirigenti buoni per tutte le stagioni, rottamare (verbo impietoso) vecchie mummie e meccanismi obsoleti. Per un po’ gli hanno creduto, tanto da conquistare il 40 per cento alle Europee del 2014. Poi si è incartato: gli ottanta euro sono stati vissuti come una mancia, il job act ha portato allo scontro con la Cgil, la riforma della Costituzione alla disfatta. Sia chiaro, tutti temi fondamentali: il sostegno ai redditi più bassi, la riforma di una legislazione del lavoro troppo onerosa, lo snellimento della Carta. Ma le soluzioni adottate non sono valse a risolvere i problemi. Anzi, li hanno fatti esplodere.
Dopo la sconfitta al referendum del 4 dicembre 2016 doveva andar via davvero, ritirarsi per anni, se non per sempre, dall’agone. E invece è ancora qui, a dare indicazioni dietro le quinte, ad occupare la scena con tracotante sicumera, a mettere veti e bastoni tra le ruote al volenteroso e sofferente Maurizio Martina, a cercare candidati propri alla segreteria o addirittura pensando a rimettersi direttamente in corsa per le primarie. Detta regole e condizioni, ha fatto fallire ogni ipotesi di dialogo con i Cinquestelle consegnandoli all’abbraccio di Salvini, invita a mangiare i popcorn e a godersi lo spettacolo di una supposta implosione del governo che invece aumenta a dismisura i propri consensi. Che vuole fare? Sciogliere il partito, come improvvidamente auspicato dal suo ascaro Matteo Orfini, e farne uno a propria immagine e somiglianza? Intende emulare Macron, tra l’altro in piena fase discendente? Lo dica, con chiarezza. Altrimenti passerà alla storia politica come colui che ha distrutto il Pd.
Nicola Zingaretti è un buon amministratore, la faccia pulita e onesta, una sana bonomia, usa toni concilianti, tende ad includere, sembra avere le idee precise su un moderno riformismo. Potrebbe essere lui il medico giusto per curare il malato e farlo rialzare dal letto di dolore? Le caratteristiche sembrano adatte ma se anche riuscisse a superare le tante trappole disseminate sul suo percorso, il rischio è che, se la scelta del nuovo segretario non viene preceduta e accompagnata da un vero congresso aperto a tutti, il Pd sopravviva ma solo per navigare tra il 15 e il 20 per cento dei consensi.
La conta non può essere tutta interna all’apparato. Vanno spalancate porte e finestre per far circolare un vento nuovo, un vento di programma. Un dibattito senza precedenti, ampio, serrato, spietato. Al quale debbono partecipare, senza tentennamenti, tutti coloro che hanno a cuore le sorti del pensiero progressista. Iscritti e non iscritti, militanti e aventiniani, giovani entusiasti e anziani delusi, intellettuali e lavoratori, immigrati e pensionati, artigiani e imprenditori, disoccupati e garantiti, precari e impiegati, contadini e pescatori, studenti e insegnanti, atei e credenti di tutte le religioni. Un bagno nella società. Un’ansia di cambiamento. Per riprendere il cammino verso un mondo, come sognava Zavattini, dove buongiorno voglia dire davvero buongiorno.
Marco Cianca