L’uomo deve essere educato per la guerra e la donna per il ristoro del guerriero: ogni altra cosa è stoltezza. Così parlò Zarathustra. Non sappiamo se Edward Luttwak abbia letto Nietzsche e, nel caso, se l’abbia capito, ma nei giorni scorsi ha sentenziato qualcosa del genere: gli uomini amano la guerra, le donne amano i guerrieri.
Christiane Rochefort, scrivendo “Le repos du guerrier”, ha rovesciato il concetto. Era il 1958. Nel romanzo, che all’epoca suscitò scandalo per il suo anticonformismo, tanto, si disse, da far arrossire la signora De Gaulle, l’attrazione della giovane Geneviève per l’alcolizzato Renaud rappresenta l’esatto contrario del feticismo bellico. Amore e debolezza. “Fammi riposare. Tu sei il riposo del guerriero, di un guerriero vigliacco, dell’imboscato; Madonna dei Disertori, abbi pietà di me”, implora il protagonista.
Dalla sconfitta di Dien Bien Phu la Francia era passata alla questione dell’indipendenza algerina. Il ripiegamento esistenzialista rappresentava un rifiuto di ogni potere basato sulla forza. I movimenti studenteschi volsero in contestazione collettiva il distacco individuale. E fu di nuovo Vietnam, stavolta a stelle e strisce. Il napalm, l’esecuzione di donne e bambini, i bonzi che si davano fuoco. Anche i presidenti degli Stati Uniti avrebbero meritato di essere processati per crimini contro l’umanità. “Yankee go home”, gridavano i manifestanti. Ora bisognerebbe scendere in strada e urlare “Russi go home”. Solo che stavolta gli invasori non hanno attraversato l’Oceano per combattere il comunismo in Indocina ma scatenano l’inferno perché considerano l’Ucraina casa propria.
Certo, Putin va fermato. Non ci si può girare dall’altra parte di fronte a tanta atrocità. In questi giorni, l’editore Castelvecchi ha ripubblicato “I cristiani e la pace”, un testo vergato nel 1939 da Emmanuel Mounier. Consapevole che l’accordo raggiunto a Monaco l’anno prima, nell’illusione di placarlo, stava scatenando Hitler, il filosofo del personalismo metteva a confronto “una guerra fondata sull’odio e sulla menzogna e una pace nutrita di egoismo, di viltà e di spergiuro”. Un’equivalenza inquietante per affermare che l’assenza di sangue non può diventare “sinonimo di tranquillità” o “ingiurioso scambio di indifferenza”.
Il fondatore della rivista “Esprit” condannava con disprezzo “il pacifismo dei tranquilli”, quello che “nel settembre del 1938 non aveva a cuore la giustizia dei Sudeti, né quella dei Cechi, né quella dei Trattati, né quella delle loro vittime”, ma aveva solo l’ossessione di non interrompere “i suoi sogni da pensionato: “Una città di prudenti, una città di anime morte e di vili sicurezze”.
Argomenti che, mutatis mutandis, oggi vengono usati per tacitare sprezzantemente chi esprime dubbi sulla genesi del conflitto in corso, confondendo la Mosca dell’autocrate con la Berlino nazista. Il ricorso alle armi diventa in sostanza inevitabile se si vuole impedire un male maggiore. Mounier, da cattolico impegnato, era convinto che “la forza brutale” non potesse essere bandita dalla storia dell’uomo prima della “riconciliazione finale”, quella con Dio, ma non sapeva che si sarebbe arrivati al terrore apocalittico della bomba atomica e non poteva prevedere terribili scenari geopolitici come quelli attuali. E in ogni caso anche lui, a differenza dei tanti Luttwak con l’elmetto, rifiutava “quel bellicismo che considera la guerra come una fatalità per sua natura ineluttabile”.
Ecco, il punto è proprio questo. Sconfiggere l’orrore e “il brutale ritorno dell’istinto di potere” ma senza ricadere nella mistica del guerriero. Franco Cardini, nel suo dotto saggio “Quella antica festa crudele”, ricorda come ai cavalieri medievali venisse ripetuto il monito di Sant’Agostino: “Sis miles pacificus”, sii un soldato pacifico. Siamo sempre all’ossimoro della guerra giusta.
La polemologia e l’irenologia sono due scienze abbastanza recenti. La prima si occupa dei conflitti, la seconda della loro assenza. Ma si può imbrigliare lo scontro tra Caino e Abele in schemi e regole? Meglio Kant e Joan Baez.
We shall overcame, some day.
Perhaps.
Marco Cianca