Ho fatto parte della segreteria confederale della Cgil negli anni in cui Franco Marini aveva sostituito Pierre Carniti al vertice della Cisl. Ma la nostra amicizia si realizzò in seguito quando Marini era diventato ministro del Lavoro. I fatti sono noti. L’ora di Franco Marini, di lasciare il sindacato e passare alla politica suonò alla morte di Carlo Donat Cattin. Franco fu chiamato a subentrare nell’asse ereditario dell’eccentrico leader democristiano: la corrente di Forze nuove, con annesso ruolo nel ponte di comando della Balena bianca e lo scranno ministeriale. Da buon ex-sindacalista, il nostro non aveva alcuna intenzione di cercare guai e di iniziare su di un terreno tanto insidioso il suo (promettente) esordio in politica. Inoltre, la fine della legislatura era ormai in vista e un politico accorto doveva pensare al dopo. Si mise di mezzo, però, un altro “patriarca”: niente meno che Guido Carli, guru della finanza pubblica, titolare del Tesoro, assai preoccupato di dover accreditare all’estero la Finanziaria di Cirino Pomicino, allora al dicastero del Bilancio. “O la riforma delle pensioni, magari per decreto o me ne vado”: tuonò il custode dei conti pubblici e di quel poco di credito che ci era rimasto sui mercati internazionali. Tutti si precipitarono a rabbonirlo, ma per convincerlo dovettero (era il mese d’aprile) incaricare Marini di presentare entro metà giugno un disegno di legge in Consiglio dei ministri. Il titolare del Lavoro tolse dall’archivio il progetto Formica (che lo aveva preceduto all’inizio della Legislatura), lo ridusse all’essenziale (oltre al superamento delle pensioni baby del pubblico impiego, l’unica misura rigorosa rimase l’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni per uomini e donne) e credette di avercela fatta. All’improvviso, l’allora segretario della Uil Giorgio Benvenuto scatenò contro il suo ex collega una campagna polemica durissima, una guerra senza quartiere. Si pensava anche senza motivo, visti i contenuti moderati del progetto; quando ci si accorse che Benvenuto faceva da battistrada (inconsapevole?) a Bettino Craxi, il potente “signore” del Psi, il quale – per ragioni rimaste misteriose – aveva deciso che quella riforma non doveva essere fatta, chiedendo di espungere l’unica norma seria relativa, appunto, all’innalzamento dell’età pensionabile.
Andreotti difese Marini a (caute) parole, ma non ebbe un attimo di esitazione a sacrificare i propositi del suo ministro per i favori del suo più forte alleato. Così, ai primi d’agosto, il Consiglio dei Ministri approvò, more solito, il progetto Marini “nelle sue linee generali”, come dire col Poeta, “dalla cintola in su”. Oggi si sarebbe detto “salvo intese”. A settembre venne rimandata (non si uccidono così anche i cavalli?) la messa a punto degli articoli. Ovviamente, al suo veto Bettino non rinunciò mai, dando prova di un’irriducibile ostinazione, fino al punto di sconfessare lo stesso Claudio Martelli, capo delegazione socialista nel governo, quando tentò in autunno una mediazione che sbloccasse l’impasse. Poco alla volta, le pensioni tornarono in apnea in attesa di tempi migliori. Il tema servì alla campagna elettorale di Franco Marini, al quale lo scontro con Craxi aveva dato grande popolarità nella base democristiana. Marini ebbe un gran successo a Roma e nel Lazio, puntando ad ereditare la dote elettorale di Giulio Andreotti nel suo stesso Collegio, dopo che l’uomo politico era stato nominato senatore a vita. Non sapeva ancora che quel patrimonio era ormai scritto sull’acqua. Quella vicenda, peraltro, procurò, in seguito, qualche sorpresa ad altri protagonisti. Bettino Craxi aveva incaricato due dirigenti socialisti di coordinare la guerra contro il progetto Marini: uno era Francesco Forte al quale era demandato il lavoraccio più sgradevole dell’attacco frontale; l’altro era Giuliano Amato. Quest’ultimo tentò di imbastire spiegazioni più raffinate, approcci culturali a volo radente, riciclando tanti luoghi comuni del dibattito previdenziale, tutti incentrati sulla necessità di rendere “volontario” (e non obbligatorio) l’innalzamento dell’età pensionabile. Quanto successe a pochi mesi di distanza è la prova che Dio esiste, che applica con severità la legge del contrappasso. Ma questa è tutta un’altra storia. Che cosa ebbi a che fare io in questa vicenda? Io allora ero responsabile delle politiche sociali della Cgil ed avevo già iniziato la mia battaglia (ancora in corso) per la riforma delle pensioni, prendendo di mira la questione dell’età pensionabile. Allora gli uomini andavano in pensione di vecchiaia a 60 anni le donne a 55, mentre il trattamento di anzianità lo si conseguiva a qualunque età facendo valere 35 anni di contributi. Non ci vuole molto a capire che si trattava di norme assurde a fronte dell’allungamento della aspettativa di vita combinata con l’età precoce in cui si entrava sul mercato del lavoro in occupazioni stabili e continuative tanto da poter andare in “quiescenza di giovinezza” e restarci a lungo. Senza pensarci due volte mi schierai con Marini e mantenni quella posizione (la Cgil stette a guardare) anche sotto gli attacchi di Benvenuto e di Craxi. Fornendo così una copertura a Marini sul fronte socialista. Ricordo che in quell’estate Marini mi portava con sé ai Festival dell’Unità, dove venivamo accolti con grande benevolenza proprio perché il leader del Psi era clamorosamente e rumorosamente contrario. Franco non si è mai dimenticato di questa “strana alleanza” anche durante il suo successivo cursus honorum.
Giuliano Cazzola