I giochi sono fatti. Rien le va plus. Completate le liste dei candidati, parte la roulette elettorale. Dove si fermerà la pallina? I sondaggisti puntano sul nero, il rosso non va di moda, ammesso che sia un colore ancora visibile. Giorgia Meloni, con buone probabilità, sarà la prima donna presidente del consiglio. E anche la prima post-fascista. Un doppio primato. La fiamma, macabro retaggio missino del quale le si dice fiera, arde sfrontata.
Gianfranco Fini aveva lavato l’orbace nelle acque di Fiuggi, cercando di cancellare le tracce del passato. Anche l’ostinata garbatellese il saluto romano lo relega nelle intemperanze giovanili, ma dalle parole e dagli atteggiamenti emerge un guazzabuglio culturale e ideologico che mischia Mussolini e Almirante, Julius Evola e Mircea Eliade, Alain de Benoist e Pino Rauti. Il clericalismo di Augusto Del Noce prevale sull’efficientismo istituzionale di Domenico Fisichella.
La triade “Dio, Patria e Famiglia” rappresenta, a suo dire, “il più bel manifesto d’amore”. Paolo Berizzi ricorda che a coniare lo slogan fu il gerarca Giovanni Giuriati nel 1931.
Il libro che preferisce è il Signore degli anelli: nelle prossime settimane potrà distrarsi dalle fatiche propagandistiche guardando la nuova serie televisiva. Era il Fronte della Gioventù, nel quale ha militato, ad organizzare i campi Hobbit. La predilezione per i romanzi di Tolkien, in una forsennata e gratuita torsione interpretativa, rivela quel gusto per i miti celtici e per il pensiero magico che dalle origini oscure del nazismo è sceso giù per li rami fino a permeare i nostalgici rampolli del Ventennio. Attratti dal concetto di razza, sangue, nazione. Il nemico è sempre il Male, prima il comunismo, poi la democrazia liberale.
Anche Matteo Salvini, con il rosario in tasca, fa appello ad un fosco immaginario collettivo. Esorta ad avere fede in interventi miracolosi su pensioni, fisco, immigrazione. Dopo il credere, c’è l’obbedire. E poi il combattere.
Se i vescovi titubano, l’immarcescibile monsignor Carlo Maria Viganò dispensa agli elettori cattolici inequivocabili consigli pastorali: “è un peccato grave”, avverte, votare per un partito che non si opponga all’aborto, all’eutanasia, alla manipolazione genetica, all’indottrinamento LGBTQ o alla teoria gender, alla legalizzazione dei matrimoni gay, all’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali, alla maternità surrogata, alla liberalizzazione della droga.
In nome di una presunta, ipocrita e pericolosa normalità, stabilita chissà da chi e la cui gabbia può essere applicata anche alle idee, alle etnie, alle religioni, tutto diviene devianza. Una logica aberrante che è stata all’origine dei campi di concentramento. Persino il video di un orribile stupro serve per raccattare voti.
Questo è l’armamentario metapolitico della Destra che supporta la proposta di presidenzialismo. Gustavo Zagrebelsky teme che possa tradursi “in un regime autoritario sul genere di quello di Orban”. E argomenta che ogni assetto dello Stato deve essere adatto al Paese in cui viene realizzato, reputando che per noi non sia l’ideale: “Tacito negli Annali parlava di ruere in servitium. Si riferiva alla propensione dei romani di accorrere al servizio dell’imperatore Tiberio. Ecco l’attitudine a seguire il potente, ampiamente dimostrata dal consenso plebiscitario a Mussolini. Un affrettarsi sul carro del vincitore che può rovesciarsi anche nel suo contrario, ossia nell’abbandonarlo precipitosamente ai primi segni di debolezza. Uno sbandamento tra l’amore acritico e il dileggio estremo. Noi abbiamo questa pulsione ad adeguarci”.
Siamo di nuovo a Piero Gobetti e al fascismo come autobiografia della nazione. Un triste diario che sembra non avere fine. “Esiste nel carattere degli italiani una pulsione permanente verso il conformismo, l’irresponsabilità, la delega cieca al manovratore che emerge nei momenti di crisi. E questo è un momento di crisi”, concorda dolente lo storico Giovanni De Luna.
Il 25 settembre, dalla mattina alla sera, urne aperte. Domenica, maledetta domenica.
Marco Cianca