Dallo champagne alla camomilla. A Palazzo Chigi e dintorni il decotto delle nonne deve essere stato generosamente distribuito in comode bottiglie da 1,5 litri in questi giorni, mentre il castello di previsioni sulla manovra 2025, eretto con entusiasmo dal governo e già speranzosamente trasmesso a Bruxelles, veniva via crivellato dall’Istat (cresceremo meno del previsto), dalla Banca d’Italia (i conti non tornano), dall’Ufficio parlamentare del Bilancio (dove sono le coperture), dall’Inps (non toccate i soldi che servono a pagare le pensioni), tutte istituzioni i cui dirigenti – a sommo scorno di Giorgia Meloni – sono stati nominati recentemente dallo stesso governo.
Il bagno di realtà non significa che il libro dei sogni di Giancarlo Giorgetti non abbia tutti i capitoli giusti. Mantenere il ritmo degli investimenti, accrescere quelli nella pubblica amministrazione, aumentare la spesa sanitaria e quella per la difesa e, naturalmente, ridurre il debito e tagliare le tasse. Come dire di no? E’ quello che vogliamo tutti. Qualcuno lo ha sarcasticamente definito “il Black Friday della politica”, ma la speranza non si nega a nessuno. Il problema è: chi paga? Ovvero, da dove vengono i soldi? E qui, Giorgetti inciampa e si incaglia. E, siccome sembra una persona onesta, ha pensato di dirlo pubblicamente: sia chiaro, ha fatto sapere, occorre fare sacrifici. Commettendo, in un sol colpo, tre imperdonabili errori. Primo, andare a toccare, con il riferimento ai sacrifici, quelli che, per la destra italiana, da Berlusconi in poi, sono i fili dell’alta tensione. Secondo, farlo in una intervista ad un’agenzia internazionale come Bloomberg, non facile da intimidire e assolutamente allergica a smentite, correzioni e precisazioni. Terzo, accettare che l’intervista fosse televisiva: a sillabare, sullo schermo, la parola “sacrifici” è lo stesso Giorgetti. Difficile capire qualcos’altro.
La melina è, a volte, possibile. Ad esempio, il governo, il 1° agosto, ha varato con grande fanfara l’impegnativo e costoso decreto contro le code nel sistema sanitario. Dei decreti attuativi che rendano effettivamente possibile questo impegno, elettoralmente cruciale, tuttavia, non c’è traccia: né quelli tassativamente attesi per il 1° settembre, né quelli del 1° ottobre. Il “salvacode”, semplicemente, non esiste, se non nei discorsi dei ministri. Per la manovra 2025, però, il trucco non è ripetibile, come non è ripetibile lo stratagemma delle mance una tantum. Proprio perché l’impegno con l’Europa è per interventi strutturali, i tagli del cuneo fiscale (quello che spaventa l’Inps) e, poi, degli scaglioni Irpef, possono essere riproposti solo se diventano permanenti. Più o meno, insieme alle spese obbligatorie (tipo le missioni militari all’estero), bisogna sempre trovare i 20 miliardi di euro, di cui si parla da questa primavera.
Per quanto il governo possa erodere questa montagna, con interventi di contorno da un miliardo o poco più (tipo la revisione delle detrazioni fiscali), il malloppo resta indigeribile. Al di là degli equilibrismi di bilancio, il punto è semplice. I tecnici del Tesoro scommettono che l’incremento di entrate stimato per il 2024 si ripeta anche nel 2025. Peccato che questo incremento di entrate 2024 sia, in buona misura, alimentato soprattutto dall’edilizia e, dunque, dalla coda del Superbonus abolito. Peccato, soprattutto, che l’Istat abbia appena rivisto, al ribasso, l’aumento del Pil su cui si basava quella previsione sulle entrate. Peccato, ancora, che questo incremento di entrate sia previsto proseguire anche nel 2026 e 2027, consentendo una discesa del disavanzo pubblico sotto il 3 per cento pur rendendo permanenti le mance Meloni.
Tutti i problemi della finanza pubblica italiana si riassumono nel fatto che il paese cresce poco. Il punto chiave, dunque, è quale crescita ci aspetta nei prossimi tre anni e se giustifichi l’ottimismo sulle entrate su cui si regge la manovra Giorgetti. Difficile pensarlo. Esaurito il Superbonus, un rilancio degli investimenti appare improbabile. I dati sulla produzione e sul fatturato dicono che l’apparato industriale perde colpi. La Bce, probabilmente, continuerà a tagliare i tassi di interesse, ma la politica monetaria agisce con ritardo sull’economia reale e vedremo gli effetti dei tagli probabilmente solo nel 2026. Un po’ tutta l’Europa è ferma e, soprattutto, è ferma la Germania. Anche se la dipendenza dell’industria italiana dalle forniture a quella tedesca (nella farmaceutica, auto, macchinari) si è ridotta negli ultimi anni, resta decisiva per dettare il livello di attività. Sul ritmo delle entrate, lo spazio per condoni sembra esaurito. Come dice una celebre vignetta di Massimo Bucchi: “L’ottimista vede sempre il bicchiere mezzo pieno. Vai a spiegargli che non c’è più il bicchiere”.
Maurizio Ricci