Nascosta dietro la manovra finanziaria 2025, c’è l’ennesima sconfitta della società civile. Il punto non sono i 30 miliardi di euro di sacrifici, tagli, mezzi bonus messi insieme dal governo Meloni. E’ il fatto che, ormai, nessuno parla più del vero tesoretto della finanza pubblica italiana. Altro che 30 miliardi. Sono 82 miliardi (la stima è del Tesoro), con cui ci potremmo regalare una sanità e una scuola di serie A, ma che svaniscono ogni anno con l’evasione fiscale.
Evasione, tuttavia, è un termine che rischia di confondere le idee. Evoca il fisioterapista che, richiesto di fattura, risponde con autocompiacimento: “Io non ho mai pagato l’Irpef!”. O l’imprenditore che parcheggia la Ferrari nel centro di Cortina e non ha mai presentato una dichiarazione dei redditi. In realtà, assai più degli evasori totali è l’enorme esercito dei furbetti che pagano meno del dovuto il protagonista di questo grande furto di Stato: più di metà dell’intera economia sommersa italiana (un fenomeno di cui abbiamo il record in Europa) è fatta di quello che i tecnici chiamano “sottodichiarazione”.
I dati su cui si può ragionare risalgono al 2021 ( dunque, nel bene e nel male, il governo Meloni qui non c’entra). E mostrano un andamento positivo. Nel 2017, i furbetti sottraevano al resto della società 108 miliardi di euro, nel 2021 solo 82: all’erario mancano non più il 21 per cento delle entrate presunte, ma solo il 15 per cento. Ciò che conta, però, visto che si può escludere un ravvedimento di massa, è perché l’evasione si è ridotta. Non è un fenomeno generalizzato, è specifico. Riguarda una netta inversione nel pagamento dell’Iva. La propensione ad evadere l’Iva si è dimezzata: il tax gap (la differenza fra il gettito atteso, in base allo sviluppo dell’economia, e quello effettivamente realizzato) è passato dal 26,6 per cento al 13,6 per cento. In soldoni, sono 18 miliardi di euro in più per il fisco, gran parte del miglioramento dell’evasione fra il 2017 e il 2021.
E’ un successo clamoroso e non è frutto del caso. Ed è qui che il governo Meloni e, in generale, l’ideologia fiscale della destra italiana oggi al governo tornano in ballo. La svolta dell’Iva, infatti, non trova riscontro nei pagamenti dell’altra grande imposta, l’Irpef, a indicare che la leva della svolta non è una più vasta diffusione della coscienza civile. Nel caso dell’Irpef, l’evasione è un problema dei lavoratori autonomi, visto che dipendenti e pensionati sono soggetti a ritenuta alla fonte. Ebbene, fra il 2017 e il 2021, con l’Irpef è cambiato ben poco. Gli autonomi continuano ad evadere il 70 per cento dell’Irpef dovuta, per la ragguardevole cifra di quasi 30 miliardi di euro (per chi ama coincidenze e simmetrie è esattamente l’entità della manovra finanziaria appena varata).
Ora qual’è la differenza fra Iva e Irpef 2017-2021? Nel caso dell’Iva sono stati inaspriti obblighi e controlli: split payment, fattura elettronica, incentivi al pagamento con le carte di credito. I risultati sono nella riduzione dell’evasione. Nulla di tutto questo per l’Irpef, dove, al contrario, il governo (con particolare lena quello attuale) si sta muovendo in senso opposto. Non più controlli, ma contabilità semplificate, sanatorie e condoni, sconti ed esenzioni.
Ma un fisco più lontano e tollerante può dare (come sembrano pensare i tre partiti al governo) risultati migliori di uno occhiuto e vigilante? Una recente ricerca della Banca d’Italia sembra indicare che, al contrario, questa pregiudiziale ideologica fornisce più occasioni di evasione. Il teatro della ricerca sono i 3 milioni di ditte individuali (che non significa senza dipendenti) costituite da elettricisti, idraulici, consulenti informatici, commercianti, professionisti che, lungi dall’essere un fenomento marginale, raggruppano un quarto della forza lavoro italiana. Il banco di prova è il loro comportamento di fronte ai tetti che separano i regimi ordinari dai trattamenti preferenziali. L’esempio più evidente (anche se su di esso è ancora presto per avere i dati relativi) è la flat tax non oltre il 15 per cento di cui possono godere i lavoratori autonomi che dichiarino un reddito inferiore a 85 mila euro l’anno.
Non stupirà nessuno scoprire che le dichiarazioni tendono ad addensarsi giusto a ridosso – appena sotto – il livello sopra il quale si perde il diritto al trattamento preferenziale. Stupirà, invece, il grafico che mostra l’entità di questo picco registrato appena sotto il tetto del trattamento preferenziale: una brusca e improvvisa impennata che – calcolano i ricercatori di Via Nazionale – raggruppa nello spazio ristretto di poche decine di euro di reddito dichiarato, un volume di dichiarazioni pari a 4 volte quello che si avrebbe in base al trend precedente e successivo. Non c’è nulla di casuale: l’esperienza storica mostra che la gobba si muove in perfetta sintonia con le modifiche al tetto. Era appena sotto 30 mila, quando, nel 2008, il tetto al trattamento preferenziale era a 30 mila euro ed è salita a 65 mila quando, nel 2019, il vantaggio era ottenibile solo con un reddito inferiore a 65 mila. Come mai? A sgomberare il campo da ogni dubbio, lo studio osserva che, nelle dichiarazioni, il reddito si muove, ma i costi di attività dichiarati no: quanto basta per indurre gli abitualmente prudenti ricercatori di Via Nazionale a definire esplicitamente “manipolate”, per rientrare sotto il tetto, questa massa di dichiarazioni.
Ma non c’è solo l’erario a subire il danno delle sottodichiarazioni. Lo studio affronta un tema solitamente trascurato. L’evasione fiscale è, infatti, anche uno strumento di concorrenza sleale, perché sfrutta un vantaggio artificiale di costo (fiscale, in questo caso). Il danno – che subiscono le aziende in regola, normalmente più grandi di quelle individuali – è cospicuo: lo studio Bankitalia calcola che, quando il numero degli evasori sotto tetto aumenta dell’1 per cento, il reddito delle ditte sopra il tetto diminuisce quasi del doppio, 1,9 per cento. E la concorrenza sleale, consentendo ad imprese meno efficienti di sopravvivere, colpisce anche l’efficienza complessiva del sistema. Se si eliminassero i furbetti, la produttività delle aziende che non manipolano le dichiarazioni aumenterebbe fra il 4 e il 7 per cento.
Maurizio Ricci