Il Pd è tornato in piazza. Un inaspettato e convincente segnale di vita. Una buona notizia per chi sa che solo l’esistenza di una seria opposizione garantisce la regolarità del gioco democratico. Ma, in questi giorni di convulsa preoccupazione per i conti pubblici, a colpire è il silenzio della Cgil. L’anno scorso fu subito scontro con il governo di Paolo Gentiloni. Susanna Camusso bocciò le misure proposte, in particolare esigendo la sospensione dell’adeguamento automatico dell’età pensionabile alle aspettative di vita. Non ottenendo risposte soddisfacenti, diede il via alla mobilitazione. E dalle assemblee di fabbrica si arrivò allo sciopero generale del 2 dicembre.
Ora tutto tace. Può essere comprensibile che l’annunciato smantellamento della legge Fornero susciti il plauso della confederazione, che ha contestato le norme draconiane fin dal loro varo. Applausi ha ricevuto l’accordo sull’Ilva (facendo finta di dimenticare che il contenuto ricalca in buona parte quello di Carlo Calenda) e peana si sono levati per gli interventi a favore della cassa integrazione. E il decreto dignità é stato considerato condivisibile anche se contraddittorio e senza coraggio. Non sono note concrete azioni a favore dei disperati dalla pelle nera in casi come quelli delle navi Acquarius o Diciotti. Più in generale è piena sintonia con l’esecutivo giallo-verde nella guerra al job act, che fu il casus belli della lotta frontale con il partito democratico.
Più che legittimo, ci mancherebbe altro. Il sindacato deve fare il suo mestiere. Ma qui è in pericolo qualcosa che va oltre le questioni previdenziali o la legislazione sul lavoro. La manovra del popolo, annunciata dal balcone di Palazzo Chigi, oltre a mettere a rischio il bilancio dello Stato, segna l’innalzamento della sfida lanciata all’Europa e scuote tutti gli equilibri istituzionali. Si profila una nuova contesa con il presidente della Repubblica, garante della Costituzione e degli equilibri finanziari. Non dimentichiamo che il prode Di Maio invocò l’impeachment per Sergio Mattarella quando disse no alla nomina di Paolo Savona quale ministro dell’Economia. E se il capo dello Stato si rifiutasse di firmare, ritenendoli non consoni o privi di effettiva copertura, qualcuno dei provvedimenti partoriti dagli sconsiderati ministri? Che farebbe allora la Cgil? Si schiererebbe con il governo o difenderebbe il Quirinale? O vestirebbe i panni di Ponzio Pilato?
Inquietanti interrogativi. Che direbbero, oggi, i morti di Portella della Ginestra? O quelli di Reggio Emilia? Che direbbero quei militanti e dirigenti che hanno sfidato urla, bulloni e pallottole ai tempi del terrorismo? Che direbbe Guido Rossa? Che direbbero quelli che nel 1972, tra saluti romani, insulti e minacce, sfilarono a Reggio Calabria per opporsi al “boia chi molla” di Ciccio Franco? Le bombe lungo le ferrovie e i neofascisti alleati della malavita non li fermarono. “Nord e sud uniti nella lotta”, era la parola d’ordine. A proposito di populismo, vale la pena di ricordare, come ha scritto Guido Crainz, che, ai tempi della rivolta, il sindaco chiamava alla lotta il popolo reggino contro “i baratti e i tradimenti dei vertici”. La storia della Cgil è la storia della democrazia, della libertà, del parlamentarismo. Un argine ai propositi golpisti, ai tentativi autoritari, all’avventurismo, alla mafia, allo stragismo, alla violenza estremista, alla rabbia antipolitica. Mai con la Vandea, sempre con la Res publica.
In verità, la mutazione genetica della più grande confederazione italiana parte da lontano, dai quei primi anni novanta quando si scoprì che al Nord parecchi iscritti votavano per la neonata Lega. Il loro numero è cresciuto e si è sommato ai tanti che, con la tessera del sindacato in tasca, hanno scelto i Cinquestelle. Le radici di sinistra si stanno seccando. E i dirigenti sembrano assecondare, se non favorire, questo cambiamento. Una responsabilità enorme. Significa cancellare quei principi di solidarietà e di universalità che sono sempre stati il patrimonio genetico della Cgil. Significa ammainare la bandiera tenuta alta da Giuseppe Di Vittorio, Luciano Lama e Bruno Trentin. Significa diventare una corporazione.
Marco Cianca