“Nell’oggi cammina già il domani” diceva un poeta inglese dell’800. È quello che la manovra varata dal Governo sembra invece ignorare. Una manovra che nasce non più in una stagione di crisi ma di ripresa della quale spesso si è per giunta menato vanto. Era legittimo attendersi quindi un maggiore coraggio su alcuni terreni che sono proprio quel domani già in cammino. Vale a dire investimenti e politiche attive del lavoro collegate a progetti di modernizzazione del Paese.
Il risultato non è di certo esaltante. Qualche luce, ma l’impressione che l’avvicinarsi dei tempi elettorali abbia consigliato Gentiloni e Padoan di galleggiare prudentemente sul presente. Indubbiamente pesano i vincoli europei che pongono una questione di fondo: quella della necessità di ridisegnare un’Europa che torni ad essere “sociale”, abbia una sua identità in termini di valori, susciti coesione reale.
Invece siamo di fronte ad una Europa che resta con le mani legate: i populismi non prevalgono ma restano inquietanti a rappresentare tutte le paure di popoli europei che non sanno come reagire ai cambiamenti che li assediano. Le logiche eurotecnocratiche fanno da scudo ad un cambiamento di rotta comune nel definire regole nuove, commisurate agli scenari che fanno da cornice a questa nuova fase della globalizzazione non meno contradditoria e insidiosa della prima ed anzi annoverano fra le loro file i fautori di automatismi che ricordano i vecchi autoritarismi rigoristi. Ed anche i segnali che provengono dal duo Macron-Merkel non sembrano molto diversi dalla volontà di affermare le proprie prerogative sul resto del Vecchio Continente.
Con questi vincoli non si può fare moltissimo, vero, ma qualcosa di meglio si poteva escogitare, soprattutto in relazione al fatto che le previsioni sul 2018 immaginano una prosecuzione, ma al ribasso, dell’attuale crescita che quindi andava potenziata da interventi meno congiunturali di quelli escogitati.
Non solo il 2017 dovrebbe concludersi con la ratifica del Fiscal Compact da parte del nostro Parlamento che potrebbe accentuare la subordinazione della nostra politica economica ai dettami europei che prevedono, ma nessuno ne parla (anzi nemmeno fiata), fra l’altro, l’obbligo di riportare il rapporto fra debito e Pil entro il 60% in venti anni.
Qualcuno già comincia ad usare la parola “commissariamento”, ma se essa è prematura non lo dovrebbe essere una riflessione della classe dirigente sul futuro che ci aspetta e che non sarà privo di prove severe. Che la manovra non abbia lo sguardo lungo lo dimostra il fatto che la voce più imponente non è quella destinata a nuovi investimenti ma alla sterilizzazione dell’Iva, 15 miliardi, che non chiude però il capitolo ma lo rinvia solo di un anno ed ai prossimi governi. E dopo anni di enfatizzazione della spending review, la posta prevista sembra essere un misero miliardo di risparmi.
La misura sull’Iva dovrebbe impedire gelate sui consumi, anche se, come sostiene apertamente il Presidente della Bce Draghi, oggi il vero nodo in Europa è costituito dalle dinamiche salariali. Va ricordato che Draghi insiste sul fatto che ormai è indispensabile una quota di inflazione da salari. E questo problema dovrebbe far parte dell’agenda non solo delle parti sociali ma della politica, perché dalla soluzione di esso dipende anche buona parte della coesione sociale e della attenuazione delle diseguaglianze. Va dato atto che almeno la manovra onora un debito lungamente disatteso dal Governo che è quello del rinnovo dei contratti per il pubblico impiego.
Ma fa da contraltare a questo impegno quello assai più esiguo per la crescita che non arriva a 700 milioni, metà dei quali utilizzati per gli sgravi contributivi a favore dei giovani. Un intervento che segna una interruzione temporanea delle sterili doglianze sulla enorme disoccupazione dei giovani, ma che appare della stessa stoffa degli sgravi decrescenti previsti dopo la crisi. Solo che in quel caso la mossa era giustificata dalla necessità di una scossa (che esauritasi ha lasciato il campo alla rimonta del lavoro a termine) dopo una tremenda recessione, oggi si tratta invece di tracciare un percorso di rilancio strutturale dell’occupazione di cui non si trova traccia però nelle disposizioni della manovra.
Come al solito poi le entrate fiscale saranno quelle a fornire il 60% delle coperture. Il cocktail di misure è vario, alcune delle quali sembrano accettabili. Ma tutto questo ancora una volta si delinea nella assenza di interventi riformatori di ampio respiro come poteva essere l’avvio di una rimodulazione delle aliquote Irpef.
Il valore dell’equità si rintraccia praticamente solo in alcuni interventi di natura assistenziale, doverosi certo, ma non in grado di mutare la natura di una questione sociale che invece sta crescendo con il malessere fino ad ora inesploso di una parte consistente della popolazione.
Pensioni e sanità ad esempio, almeno nell’esordio della manovra, sono argomenti non pervenuti anche se la pressione sociale e i lavori parlamentari potrebbero aggiungere qualche novità. Resta la constatazione che se la manovra si astiene dal procurare nuove pene, di certo non spariglia il tavolo delle esigenze economiche e sociali di fondo.
Un solo esempio: fra le costanti del mercato del lavoro c’è la riduzione dei lavoratori occupati fra i 35 e i 50 anni. Sono quelli sottoposti alle ristrutturazioni, alle chiusure di attività, alle crisi di settori talvolta strategici. Su questo segmento sociale vasto ed importante, nessuna attenzione. In compenso si vanta come una scelta economica ecologista qualche briciola di risorse sul giardinaggio che finirà per rendere forse più curati ancora quei “parchi e giardini pensili” che non necessitano di simili regali. E se questa misura avesse lo scopo di combattere il lavoro nero compiute nelle tantissime piccole aree verdi è il caso di annotare la distanza siderale dei tecnici dalla realtà vera del Paese.
In definitiva la manovra chiude un periodo nel quale i cenni di ripresa avrebbero dovuto esigere dalla politica scelte e fatti di maggior spessore e più lungimiranti. È come se avessimo sprecato una buona carta per ipotecare in modo più positivo il futuro prossimo. Quanto a noi, i doveri ed i compiti non cambiano. A maggior ragione la presenza di forze sindacali capaci di incalzare la politica ed i Governi a non eludere il confronto diretto con i problemi reali del Paese, finisce per essere ancor più necessaria.
Così come non possiamo trascurare il ruolo di coesione sociale che oggi nessuno sembra in grado di assolvere nell’interesse di tutti. In questo contesto resta essenziale il compito di alimentare e rafforzare la nostra forza contrattuale, un ancoraggio non solo rivendicativo ma in rado di saper affrontare anche l’evoluzione inarrestabile della produzione e dell’economia.
La manovra implicitamente indica che l’attuale percorso politico ed economico è giunto al capolinea. È presumibile che il seguito sarà assorbito dalla competizione e dalle promesse elettorali. Inutile dire che il rischio che si corre è quello di accumulare nuovi ritardi ed aggiungere distanza fra la classe dirigente e l’opinione pubblica. Se collochiamo tutto questo nelle scelte che l’attuale Europa e la finanza internazionale ci presenteranno, dobbiamo essere coscienti che abbiamo di fronte un periodo ancora una volta assai complicato e non privo di pericoli.