La maledizione del secondo livello ha colpito ancora. Ormai è sicuro. Il documento unitario di Cgil-Cisl-Uil, nel titolo, è molto ambizioso. Nei circoli degli specialisti e degli studiosi quel documento è oggetto di dibattito. Tuttavia, almeno osservando ciò che sta accadendo, per il mondo confindustriale quel documento appare già al capolinea.
Ciò rende più facile aggirare la tentazione dell’esame di merito della proposta reale e della posizione tattica. Occorre ammettere, però, che Cgil-Cisl-Uil sono stati abili. Con un’unitarietà molto ricercata, apparentemente smentita il giorno dopo dall’iniziativa Cgil sui “diritti universali”, Cgil-Cisl-Uil hanno recuperato il tentativo di ri-aprire il negoziato (Cisl) e di ri-attivare i canali di comunicazione (Uil). Ora si possono tranquillamente chiudere i negoziati in corso, avendo anche il consenso implicito, poco importa se gradito, di Confindustria che i contratti collettivi si possono rinnovare anche con le vecchie regole.
A che serve un nuovo accordo sulle regole se si aderisce all’idea di rinnovare i contratti “purchessia” o comunque con il vecchio schema? E i cambiamenti che tutti ritenevamo necessari per il nostro Paese? Se ne riparlerà, con calma, nella pace sociale dei contratti rinnovati.
E almeno per altri quattro anni la maledizione del secondo livello avrà colpito ancora.
La domanda che nei circoli di studiosi gira in questi giorni riguardail decentramento della contrattazione: ci si divide tra chi ci crede (ancora) e chi non ci crede (più). Ci dicono spesso che il titolo prevale sul contenuto: come si pensa di valorizzare una “cosa” che già nel titolo è “secondaria” (di secondo livello) e i cui capisaldi sono basati sull’ablazione, sulla deroga, sulla rimozione?
Il tema era stato già ampiamente sondato dalla Commissione Giugni di verifica del Protocollo del 1993 (La funzione autonoma e specializzata del secondo livello di contrattazione appare molto insoddisfacente. La mutata situazione della realtà produttiva italiana rende sempre più difficile il mantenimento di una contrattazione di secondo livello che si avvale di un uso insoddisfacente dei parametri oggettivi indicati dal Protocolloper quanto attiene alle materie retributive. La struttura industriale italiana necessita di maggiore adattabilità ai processi di globalizzazione, flessibilità che può essere garantita solo da una maggiore variabilità di una quota del salario. Tuttavia, il mutamento delle “regole del gioco” non è sufficiente a modificare questa tendenza finché gli attori sociali non muteranno la loro cultura contrattuale, rispettando l’impegno a perseguire una politica salariale che utilizzi parametri oggettivi).
Ma si veda, in questa linea, anche l’analisi che è costantemente condotta sulla contrattazione decentrata in Europa per comprendere l’elasticità della contrattazione aziendale nelle economie che affrontano la crisi, pensando alla crescita, a viso aperto (tra i più recenti, Borzaga, 2015; Peskine, 2015; Faioli-Haipeter, 2015; Zoppoli, 2015 e Bavaro, 2014 per le prospettive sul rapporto tra legge, contratto decentrato e produttività).
Evidentemente il timore di lasciare il certo per l’incerto ha creato un’alleanza invincibile,anche se inconsapevole, tra il cinismo dei conservatori del centralismo e l’utopia di chi vorrebbe decentrare. Il “secondo livello” resta lì, lasciando inalterata la centralità del primo. C’è un dubbio che gira: chi crede che il perimetro del contratto nazionale possa influire in qualche modo sulla qualità e sulgrado di diffusione della contrattazione decentrata,non fa forse i conti con la contrattazione vera, quella che è più praticata in azienda e sul territorio?
Vediamo due esempi. Ci sono i metalmeccanici e la contrattazione in fieri che quel settore della nostra economia attende. E’ una proposta coraggiosa e lungimirante, completa e solida. La Fiom dovrà scegliere se stare in questa sfida, dopo molti anni di conflitto e di conseguente mancata sottoscrizione di contratti nazionali. Per superare la maledizione del secondolivello occorre superare il tabù del ponte: siamo di fronte a un bivio, dove il ponte è verso il vuoto? Si possono percorrere due strade in questo caso? Dissociarsi da un contratto collettivo nazionale è sbrigativo, non facile, ma rende in termini politici. Costruire un sistema contrattuale su due livelli “equipollenti” è difficile e non rende in termini politici.
Nel settore del terziario la situazione è ancora più complicata. A fronte di un blocco sindacale unitario, il sistema di rappresentanza datoriale è spaccato, in tendenziale frantumazione (esemplificativamente, Federdistribuzione vs Confcommercio). Anche quei contratti collettivi necessitano di una revisione del sistema retributivo e della classificazione del personale: si chiedeun salario a struttura flessibile, con retribuzione di base invariabile nel tempo e incentivi effettivamente connessi alla produttività misurabile; si chiede una flessibilità di orario che risponda a esigenze nuove; si insiste per la modifica degli inquadramenti professionali che risalgono a anni in cui terziario e turismo erano intrecciati con dinamiche economiche più profittevoli. Quel mondo non esiste più e pur si continua incidere chirurgicamente su un testo di norme contrattuali che appare quasi mortoallo studioso della materia (exp. rinvii a norme di legge abrogate da tempo, incongruenze tra discipline, etc.). E da qui che deriva la spinta di grandi gruppi a consolidare un secondo livello totalmente sostitutivo del primo?In questi casi ciò che conta è la giurisprudenza: quella più recente conferma quellaspinta dissociativa dal contratto nazionale anche in questi settori (Tribunale di Milano 18 dicembre 2015 –su questi temi rinvio al mio saggio in corso di pubblicazione nella rivista“Diritti, Lavori, Mercati”, 2/2016).
Questi discorsi sono, ahimè, ripetibili, per alcuni versi adattabilia tanti altri settori.
Due spunti comparativi.
Recentemente, in sede Eurofound, ho partecipato alla stesura del rapporto “Statutory Wage”. Osservando il diritto del lavoro di altri paesi europei, la domanda che ci si deve porre riguarda esclusivamente il tempo che l’ordinamento italiano impiegherà nell’introdurre ex lege la fissazione del salario di base. La modalità sarà scelta dal legislatore. Sarà essa forse criticabile, ma certamente sarà in linea con le esperienze comparabili a livello europeo. La ricaduta sul nostro sistema di relazioni industriali dipenderà dalla modalità che il legislatore sceglierà di adottare: il gioco sarà tra settori coperti o non coperti da contrattazione, così come ci indicava già la legge delega del Jobs Act- l. 183/2014? O si sceglierà una via più incisiva?
Il secondo spunto comparativo riguarda gli Stati Uniti. Si può e si deve migliorare la produttività: questo è il discorso che T.Kochan (MIT Sloan School of Management, 2015) conduce sul sistema americano. Kochan insiste su un punto: whilethiskind of normshould emerge from the private sector, ultimately it will take a comprehensive update of labor law to provide workers the ability to bargain at the highest levels where the key decisions affecting wages are made […] If global competition makes it difficult to sustain high wages in manufacturing or other industries under outsourcing pressure, then wage increases in these sectors will need to be tied more directly to profits, customer service or other indicators of enterprise performance. This is the approach the United Auto Workers and domestic automakers took to better align incentives of owners and workers in ways that both help drive productivity and reinstall a sense of fairness at the workplace… Minimum wages could also be tied to other economic indicators such as the cost of living or the ratio of the minimum to median wages and raised gradually to allow employers to make adjustments in strategy to avoid or minimize negative employment effects. That’s the strategy Seattle employed to pass its $15 minimum while easing the impact on business. È un’affermazione che deve essere certamente incastonata nel mondo nordamericano. Ma ciò che qui interessa è la presa di posizione sul secondo livello della contrattazione per la salvezza del sistema industriale statunitense.
Ritornando all’Italia eguardando con occhi neutri le interazioni globali, se è vero che oggi ci chiediamo (ancora) come la contrattazione aziendale possa realizzare un decentramento “controllato” sull’asse produttività/merito/salario, domani, nelle relazioni industriali 2020, (forse) ci chiederemo come il salario sarà regolato dalla contrattazione aziendale in via sostitutiva del primo livello? In questo quadro rientra anche il ruolo che il welfare aziendale sta assumendo in ragione dei benefici fiscali e contributivi di cui gode (l. stabilità 2016). Il welfare aziendale è il primo passo per un decentramento che disciplini in via sostitutiva produttività/merito/salario.
Non ci sarà, tuttavia, il salto sino a quando non si chiuderà il quadro normativo sulla rappresentanza dei lavoratori in azienda (v. l’art. 19 St. Lav. in relazione alla giurisprudenza costituzionale del 2013) e sulla tenuta giuridica dei contratti decentrati. Iniziamo da lì e subito.
Michele Faioli