La legge sulla partecipazione è cosa praticamente fatta, tempo poche settimane e potrebbe vedere la luce, anche se non con l’adesione bipartisan su cui si era puntato, e sia pure con diverse modifiche rispetto al testo originale apportate durante il lavoro nelle commissioni parlamentari. Sono molte le speranze legate a questo passaggio, e molti anche i timori. La Cisl, che la legge ha voluto fortemente e ha raccolto le firme per avviarne l’iter, naturalmente esulta. Meno contenta la Cgil: Maurizio Landini ha espresso tutta la sua contrarietà sostenendo che danneggerà la contrattazione. Anche Confindustria ha preso le distanze.
Quello che è certo è che, almeno nel breve periodo, non porterà grandi cambiamenti: la legge si limiterà a dare liceità alle diverse forme di partecipazione, ma senza forzare la mano, tanto è vero che non è prevista alcuna obbligatorietà, è tutto lasciato alla contrattazione, quindi alla volontà delle parti, nel caso delle aziende, che potranno dar luogo alle forme di partecipazione che riterranno utili per il loro interesse. Ma soprattutto non ci saranno cambiamenti epocali, perché la collaborazione tra capitale e lavoro non nasce adesso.
A voler ripercorrere la storia delle relazioni industriali, il primo atto in questa direzione fu il varo dei diritti di informazione, quella che una volta si chiamava la prima parte dei contratti. Cominciò il contratto dei metalmeccanici nel 1973, poi via via vennero gli altri. Si decise all’epoca che i lavoratori, tramite i rappresentanti sindacali, avevano il diritto di essere informati delle principali decisioni che le imprese prendevano e che potevano avere influenza sulla loro vita. Sulle decisioni principali, ma anche su quelle meno importanti: tutti ricordiamo i comitati per la gestione della mensa, dove si sceglievano non i menu, ma certamente il livello del cibo fornito ai lavoratori.
Sulla base di quell’esperienza, che è andata avanti negli anni, è nata poi l’abitudine alla collaborazione all’interno delle imprese attraverso la creazione e la gestione di organi paritetici per discutere i più vari problemi. Un sistema che si basava su un concetto centrale, e cioè che gli interessi delle aziende erano vicini a quelli dei lavoratori, e che quindi era utile che nella gestione delle aziende il sapere dei dipendenti fosse messo a disposizione delle imprese. Abitudini radicate che avevano del resto già trovato ampia attuazione negli enti bilaterali che hanno risolto problemi fondamentali per i lavoratori e aiutato le imprese a gestire meccanismi altrimenti molto complessi.
Un’esperienza ampia, che ha coinvolto però solo le aziende maggiori, le grandi sicuramente, le medie in alcune occasioni. I piccoli imprenditori no, non hanno mai amato la partecipazione, sostanzialmente perché gelosi delle loro prerogative. Per lo stesso motivo per cui hanno sempre cercato di ridurre al minimo i rapporti con il sindacato, perché il potere non si condivide con nessuno, se possibile nemmeno con i propri figli. E le piccole imprese non sono frange, ma rappresentano la parte preponderante dell’imprenditoria italiana.
È per questo che le loro rappresentanze, a partire da Confindustria, non si sono mai espresse in termini positivi nei confronti della partecipazione. L’unica apertura è stata quella contenuta nel Patto della Fabbrica del 2018, che in effetti si dichiarò a favore delle forme di partecipazione, nei diversi modi possibili, fino anche alla gestione delle imprese. Un passo in avanti importante, ma espressione non di un sentire diffuso, quanto di uno sbilanciamento di vertice, voluto con la testa, non certo con il cuore.
Questo non ha significato però una chiusura degli imprenditori nei confronti del sindacato. Il dialogo tra le parti è sempre stato forte, soprattutto quando è stato necessario gestire crisi di aziende o di settori. Le grandi ristrutturazioni industriali, anche molto dolorose, degli anni 80 e 90 sono state tutte portate avanti in accordo con il sindacato, che non si è mai tirato indietro quando si è trattato di assumersi responsabilità pesanti, spesso anche senza il consenso dei lavoratori.
Adesso si tratterebbe di fare un passo in avanti, e non si sa in quale direzione si andrà. Le possibilità sono svariate, per quanto si riferisce alla gestione delle aziende gli approdi potrebbero essere due, l’ingresso di rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione o la creazione di organi paritetici di sorveglianza, come nella migliore tradizione del Nord Europa, della Germania in particolare. Difficile anticipare quale strada sarà scelta. L’ingresso nei cda è un passo molto complesso che in qualche modo snatura l’organo, perché i lavoratori non investono propri capitali. Più consona forse la scelta dei consigli di sorveglianza, per i quali esistono già delle esperienze importanti. Per esempio, i CIV, i consigli di indirizzo e vigilanza degli enti pubblici, che indicano le direzioni da prendere e sorvegliano che la gestione sia corretta, ma lasciando l’ultima decisione ad altri organi.
Resta da capire poi quali conseguenze si possano verificare per il sistema della contrattazione. Anche qui nel breve periodo non è credibile che ci siano reali trasformazioni. La centralità dei contratti nazionali non è in discussione, è la scelta operata dalle confederazioni dei lavoratori e datoriali e non c’è intenzione di rivederla. La partecipazione, in qualsiasi modalità venga praticata, porterà comunque una maggiore intensità di confronto nelle imprese e questo potrebbe portare una crescita dei contratti di azienda. Ma sarà un processo comunque lento, che non cambierà il volto e le abitudini del dialogo sociale, certo non nel breve periodo.
Massimo Mascini