Più di vent’anni or sono un docente amico, titolare della cattedra di demografia nella Facoltà di Economia dell’Ateneo bolognese, mi chiese di utilizzare una decina di ore del suo corso per fare alcune lezioni sul sistema pensionistico in considerazione della interdipendenza sempre più marcata tra la sua materia e la previdenza. Ricordo bene anche una sua considerazione sulla demografia, che da un po’ di tempo aveva acquistato una rilevanza scientifica nuova. In passato – mi disse – era considerata una disciplina “dipendente” da altre nel campo dell’economica. Era in corso invece una rivalutazione come materia che condizionava le altre: lo sviluppo, l’occupazione, gli equilibri dei grandi sistemi di welfare. Oggi la demografia ha un posto di rilevo nel dibattito.
A essere maligni, si potrebbe dire che l’interesse dipende dal fatto che i trend demografici sono divenuti un’emergenza e che il Paese affronta i suoi problemi soltanto in questa logica. Oggi abbiamo chiaro che il fenomeno della denatalità – che non può essere invertito se non nell’arco di decenni e di generazioni, ammesso che non sia già troppo tardi – comporterà conseguenze rilevanti sulla popolazione, sul mercato del lavoro, per un motivo piuttosto banale: le coorti che devono subentrare a quelle che escono dal mercato del lavoro non potranno farlo se non in parte per il semplice fatto che quelle persone non sono mai nate. Combinando questo fenomeno con l’invecchiamento della popolazione si arriva – come da noi – ad avere delle società rovesciate, al cui interno gli anziani sono più numerosi dei giovani.
Affronta questi temi un saggio “La trappola delle culle. Perché non fare figli è un problema per l’Italia e come uscirne” scritto da due giornalisti e amici, Luca Cifoni e Diodato Pirone, edito da Rubbettino. Gli autori impostano la loro narrazione su alcuni dati che, nel prosieguo della lettura si riveleranno cruciali. Il primo è un pugno nello stomaco: per ogni 100 nati sono presenti 170 settantenni. Il secondo è una data: il 1964 quando il tasso di natalità – con un milione di nuovi nati – si piazzò al 20 per mille. Negli anni successivi è iniziata la discesa, prima in modo lento, poi accelerato, con periodi di recupero, grazie soprattutto all’immigrazione, seguiti da nuovi crolli; fino ad arrivare nel 2021 al di sotto dei 400mila (e 7 per mille). Il saggio dà conto con cura dei fattori esterni che determinano questi andamenti.
Negli ultimi anni, soprattutto hanno pesato eventi come la crisi economica del 2008 e la pandemia. Sullo sfondo si colloca anche la mancanza di una politica a favore delle famiglie e della natalità. Anzi – lo ricordiamo agli autori – risorse importanti destinate alle famiglie sono state dirottate, nel 1995 con la riforma Dini, al finanziamento delle pensioni. E’ una storia sulla quale si è imposto il silenzio della vergogna ma che è bene raccontare mentre commentiamo un libro coraggioso che indica la direzione giusta. Al sostegno dei figli e delle famiglie il welfare all’italiana dedica il 4% dell’intera spesa sociale che è la metà di quella media europea. In termini di Pil alla maternità e ai figli è dedicato circa l’1% che è un 1/17° di quanto è destinato alle pensioni Ma – il fatto sembrerebbe essere “segretato” visto che non se ne parla mai – dal 1995 ad oggi vi è stata una vera e propria spoliazione di risorse dalle politiche famigliari a quelle pensionistiche.
Negli anni ’60 (gli autori hanno affidato un ruolo da pietre miliare al 1964), sia pure in un contesto demografico profondamente diverso dall’attuale, era pressoché corrispondente a quella per le pensioni la spesa per assegni familiari: allora misura di carattere universale, fino alla riforma del 1988 che introdusse l’assegno al nucleo familiare – l’Anf – il principale, se non addirittura l’unico, strumento a tutela della famiglia, ragguagliato al reddito e al numero dei componenti. La riforma del sistema pensionistico, attuata dalla Legge Dini-Treu nel 1995, stabilì una riallocazione dei contributi a favore del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (Fpld) la cui aliquota contributiva, dal 1° gennaio 1996, passò di colpo dal 27,5% al 32,7%.
Per non aumentare il costo del lavoro, la legge operò, ad oneri invariati, una ristrutturazione della contribuzione sociale: l’aliquota per l’Anf passò dal 6,2 al 2,48%, quella per la maternità dall’1,23 allo 0,66%, mentre quella ex Gescal (un tempo rivolta a finanziare l’edilizia popolare) dallo 0,35% a zero. In euro, a prezzi 1996, la diminuzione delle risorse disponibili fu di 4,6 miliardi di lire per l’Anf, di 0,6 miliardi per la maternità, di 1,4 miliardi per asili ed edilizia sociale, per un totale di 6,6 miliardi. A prezzi 2008, le risorse disponibili, trasferite alla voce pensioni, corrisposero a 8,5 miliardi l’anno. Più chiaramente – come documentò la Cei in un saggio <Il cambiamento demografico> pubblicato da Laterza – dal 1996 al 2010 la riallocazione di risorse destinate alla famiglia, in senso lato, ha finanziato il sistema pensionistico per un ammontare che, a prezzi 2008, mobilitò e trasferì un volume finanziario pari a circa 120 miliardi di euro. Ma non basta; perché all’interno della Gestione prestazioni temporanee dell’Inps (che eroga le prestazioni previdenziali <minori> in quanto non pensionistiche), la voce <assegno al nucleo familiare> – nonostante la riduzione dell’aliquota – continua ad incassare dai datori di lavoro circa un miliardo in più di quanto spende: l’avanzo viene riversato, nella logica del bilancio unitario dell’Inps, nel calderone delle gestioni pensionistiche e delle altre prestazioni. E’ questo, tuttavia, solo il punto terminale di una politica che ha consapevolmente sacrificato il sostegno alla famiglia per finanziare il sistema pensionistico.
Che altro dire di un modello sociale tanto distorto, dove i nonni e i padri hanno rubato e rubano ai figli e ai nipoti ? Eppure, anche oggi, che sono venuti in evidenza gli effetti congiunti della denatalità e dell’invecchiamento, i grandi soggetti sociali non sembrano in grado di fare quel 2+2 che chiamerebbe in causa da un lato le riforme del sistema pensionistico, dall’altro gli squilibri del mercato del lavoro. Cifoni e Pirone conducono – con i grafici consueti – un esame del numero dei componenti delle diverse coorti, da dove si vede chiaramente che le generazioni in entrata non sono in grado di sostituire quelle in uscita, non perché vogliono stare sul divano a godersi il reddito di cittadinanza o perché rifiutano alcune mansioni. Certo ci sono anche questi aspetti, ma il più importante è proprio di natura esistenziale: non sono nati in numero adeguato. Del resto è facile immaginare – anche a volo d’uccello – che verrà un momento in cui il milione di nati nel 1964 verranno a contatto come pensionati con i 399mila nati nel 2021 (o magari con i 500mila di anni precedenti). Che cosa succederà a quel punto? Se oggi – scrivono gli autori – abbiamo 2,7 potenziali lavoratori per ogni anziano, fra una trentina di anni “per ogni tre persone in età lavorativa ci saranno due over 65 da mantenere”.
Come si possa non tenere conto di questa prospettiva quando si discute del sistema pensionistico è, per me che scrivo, un elemento di miopia irresponsabile. Cifoni e Pirone, poi, hanno il merito di non attribuire in nostro inverno demografico solo a motivi economici (la assenza di politiche di sostegno, la c.d. precarietà, ecc.) che pure non vanno sottovalutati. Esistono aspetti che rendono il processo di carattere strutturale. Innanzi tutto, il crollo della popolazione giovanile è la conseguenza di quanto è avvenuto nelle coorti precedenti, anch’esse meno numerose e di conseguenza meno prolifiche. Si determina cioè una corsa al ribasso, scandita da un dato naturale del quale tutte le diavolerie scientifiche non sono riuscite a fare a meno: il tasso di fecondità della donna, convenzionalmente fissata tra 15 e 49 anni. In questa fascia di popolazione, le donne italiane – sottolinea il saggio – sono sempre meno numerose: da un lato, le cosiddette baby boomers (ovvero le donne nate tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta) stanno uscendo dalla fase riproduttiva (o si stanno avviando a concluderla); dall’altro, le generazioni più giovani sono sempre meno consistenti. Queste ultime scontano, infatti, l’effetto del cosiddetto baby-bust, ovvero la fase di forte calo della fecondità del ventennio 1976-1995, che ha portato al minimo storico di 1,19 figli per donna nel 1995.
Al 1° gennaio 2019 le donne residenti in Italia tra 15 e 29 anni erano poco più della metà di quelle tra 30 e 49 anni. Rispetto al 2008 le donne tra i 15 e i 49 anni sono oltre un milione in meno. Un minore numero di donne in età feconda (anche in una teorica ipotesi di fecondità costante) comporta, in assenza di variazioni, meno nascite. Questo fattore è alla base di circa il 67% della differenza di nascite osservata tra il 2008 e il 2018. In poche parole (absit iniuria verbis) si sta spezzando la filiera della riproduzione sociale. Fino ad un certo punto vi è stata la compensazione degli immigrati, in generale in giovane età e orientati a prolificare. Negli ultimi – per tanti comprensibili motivi – i flussi hanno avuto dei problemi e le famiglie di stranieri si sono orientate a comportamenti mutuati da quelle italiane. Tuttavia come fanno notare i demografi e gli stessi autori l’immigrazione (che non costituisce una risorsa infinita) è un contributo fondamentale per correggere gli squilibri più critici del depauperamento della popolazione italiana. Peraltro se non si organizza e programma secondo il fabbisogno l’immigrazione, si è condannati a subirla. “Quella migratoria – scrivono gli autori – è l’unica variabile demografica che in tempi relativamente rapidi può modificare le tendenze in atto, mentre i cambiamenti delle scelte riproduttive dell’intera popolazione richiedono un orizzonte più esteso”.
Giuliano Cazzola