Un capitolo importante dell’accordo di rinnovo del contratto dei metalmeccanici sottoscritto lo scorso 26 novembre riguarda l’istituzione (sarebbe meglio parlare di riproposizione) di una commissione paritetica con il compito di rivedere e riformulare, entro tempi certi, le regole e i criteri della classificazione del personale, tanto nelle declaratorie quanto nei profili professionali che – i sindacati sono i primi a lamentarlo – giacciono ibernati dal 1973. Non è la prima volta che vengono sottoscritti impegni siffatti, si sono in proposito costituite più commissioni per la riforma dell’inquadramento professionali che ‘’bicamerali’’ sulla revisione della Costituzione. Tutto ancor più inutilmente. Perché nonostante i suoi anni, una buona Carta fondamentale l’abbiamo conservata, mentre non siamo riusciti ad archiviare un sistema di classificazione pensato quando nel mondo del lavoro si orientavano ancora con il sistema tolemaico e agli apprendisti – come capolavoro di fine periodo – facevano fare la c.d. coda di rondine a colpi di lima. A conferma che è mancata una capacità di adeguamento, alle nuove realtà produttive e del mercato del lavoro, delle istituzioni-pilastro del rapporto di lavoro.
Che cosa c’è di più cruciale, infatti, del sistema di classificazione del personale ? Eppure, se non si sbloccano stavolta (è prevista pura una disponibilità per le aziende nel candidarsi a sperimentare) le relazioni industriali sono tuttora ferme a più di 40 anni orsono: al c.d. inquadramento unico, una gloria del passato, alla stregua del supercannone ‘’Berta’’ al tempo dei missili intercontinentali. Gli studenti, nei manuali di diritto del lavoro, si sono cimentati con i concetti di categoria, qualifica e mansioni. Poi avranno sicuramente letto qualche passo riguardante l’inquadramento unico e il concetto di livello retributivo. Per fissare ancora di più queste fondamentali nozioni è il caso, forse, di fare un po’ di storia. La svolta dell’inquadramento unico caratterizzò profondamente il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici del 1972 (la terza puntata dopo i contratti del 1963, del 1969, passando per quello del 1966).
La classificazione professionale dei lavoratori era raggruppata in tre macro-categorie: impiegati e tecnici, c.d. equiparati, operai. Ognuna di queste categorie era contraddistinta da un certo numero di livelli (in rapporto ai quali erano previsti i differenziali retributivi e, quindi, le retribuzioni contrattuali minime). All’interno dei livelli erano ricomprese delle qualifiche (esempio: saldatore, tornitore se operaio) ritenute meritevoli di uguale riconoscimento professionale e quindi retributivo. Ogni livello era caratterizzato da un parametro. In sostanza, fatta uguale a 100 la paga del livello più basso (il c.d. manovale comune), i parametri definivano quanto dovesse essere superiore la retribuzione minima degli altri livelli (se ben ricordiamo, l’operaio specializzato, ad esempio, era a livello 132, quello qualificato a livello 118: il che significava che la loro retribuzione base oraria era superiore rispettivamente del 32 e del 18 per cento di quella del manovale comune).
La classificazione, ereditata dal periodo corporativo e trascinata fino agli anni del post-autunno caldo, conteneva un palese discrimine. Come se si trattasse di vere e proprie caste, i livelli degli impiegati, compresi quelli c.d. ‘’d’ordine’’ erano comunque più elevati di tutti i livelli degli operai (anche di quanti avevano una professionalità di tutto rispetto). In mezzo stavano gli ‘’equiparati’’, una categoria istituita dal fascismo ‘’repubblichino’’ nel tentativo di ingraziarsi le élites operaie. Pensata inizialmente per inquadrare i lavoratori manuali di alta esperienza e specializzazione, nel dopoguerra essa era diventata la categoria dei ‘’capi’’ della grande impresa, chiamati a svolgere, nell’organizzazione tayloristica del lavoro, il compito del ‘’caporale di giornata’’ nei confronti dei lavoratori. In sostanza, erano operai ‘’equiparati’’ agli impiegati. Ad ognuna di queste categorie (i dirigenti dell’industria hanno sempre avuto una loro autonomia contrattuale) corrispondevano non solo una specifica gerarchia professionale, ma anche differenti trattamenti normativi, le cui radici risalivano addirittura al 1924, quando venne varata le legge sull’impiego privato e quando le teorie giuridiche del tempo giustificavano delle vere e proprie differenze di status con una definizione sintetica, ma molto efficace: ‘’l’impiegato collabora all’impresa, l’operaio nell’impresa’’.
Mentre sul piano dei regimi normativi (ferie, scatti di anzianità, indennità economica e trattamenti di malattia, ecc.) erano stati compiuti, già nei contratti precedenti soprattutto nel 1969, taluni interventi di armonizzazione normativa tra le differenti categorie, nel 1972 (dopo aver sperimentato l’operazione nella siderurgia di mano pubblica attraverso la contrattazione aziendale, facilitata dall’esistenza di sistemi di job evaluation) le federazioni dei metalmeccanici ‘’andarono all’assalto del cielo’’; ed ottennero nel rinnovo del contratto nazionale il c.d. inquadramento unico, consistente in un progetto di classificazione in cui le qualifiche operaie e quelle impiegatizie erano valutate per la loro capacità professionale e non per il loro status. L’allineamento degli operai nei confronti degli impiegati avvenne in due punti: l’operaio qualificato agganciato al medesimo parametro dell’impiegato d’ordine, mentre un gruppo ulteriormente selezionato di operai specializzati (i c.d. superspecializzati) era intersecato con taluni profili di impiegati di livello elevato.
Questa operazione diede luogo ad un lungo ed accurato lavoro di stesura e di definizione delle declaratorie e di nuovi profili professionali, nonchè ad una vera e propria ristrutturazione del contratto. Nei tradizionali testi precedenti, ogni categoria aveva uno spazio specifico distinto da quello delle altre. Nel contratto del 1972 si creò un’ampia parte normativa comune, mentre restarono separate le residue differenze attribuite alle tre grandi categorie sopraccitate (l’inquadramento unico, infatti, non aveva modificato il differente stato giuridico che connotava gli impiegati rispetto agli operai). E’ opportuno ricordare – sul piano della tecnica contrattuale – che i contenuti degli accordi di rinnovo (stipulati a conclusione delle vertenze) richiedono di essere inseriti nel testo previgente. Ciò comporta, di solito, un lavoro suppletivo delle delegazioni che affrontano il negoziato. In quell’occasione si trattò di un’attività di stesura che durò alcuni mesi, anche perché venne compiuta un’opera di pulizia e di adeguamento alla giurisprudenza di tutte le norme contrattuali (molte delle quali risaliva ancora al periodo corporativo). Fu quindi di un’operazione importante (anche per altre innovazioni introdotte). Il fatto è che, quarant’anni dopo, le cose non hanno avuto dei cambiamenti di particolare rilievo. Personalmente mi sobbarcai una grande parte di quel lavoro insieme con Tiziano Treu e Bruno Cossu, incrociando i ferri con Felice Mortillaro responsabile sindacale dell’appena costituita Federmeccanica. Fu l’ultimo compito che svolsi nei nove anni in cui ho militato nella Fiom.
P.S. Piazza Fontana. Il 12 dicembre 1969 io c’ero. Facevo parte della segreteria nazionale della Fiom ed ero impegnato insieme con i miei compagni nel rinnovo di quello storico contratto. Stavamo in trattativa al ministero del Lavoro di via Flavia. C’erano tutti, anche quelli che ora sono scomparsi. Sembrò che il mondo ci fosse crollato addosso.
Giuliano Cazzola