1. Chiunque abbia mai fatto una trattativa (*) sa che se ti presenti con 5 richieste e tutto va bene alla fine ne porti a casa massimo 3 (e ne hai accettate almeno una del tuo interlocutore). Ma se ti presenti con 50 richieste è molto molto improbabile che tu ne ottenga 30. E quelle che ottieni le sceglie la controparte che, in cambio, ne imporrà molte delle sue. È una legge dei numeri? No, è buon senso derivante dalla pratica. Sono le prime lezioni di base di qualsiasi corso sull’attività negoziale: la sintesi e la scelta delle priorità va fatta prima di proporre le richieste, altrimenti, se ci si presenta con una “lista della spesa” la sintesi la fa l’altra parte (e i cocci sono tuoi).
2. Si dirà: ma gli “Stati generali” non sono una trattativa, semmai un’esperienza di concertazione. Speriamo, ma non è certo. Per avviare una forma di concertazione si dovrebbe essere tutti attorno al tavolo (non troppi) e decidere insieme quale partitura si intende suonare: l’emergenza, la fase 3, lo sviluppo sostenibile del Paese, un Social New Deal, un Green New Deal… Questo non risulta essere accaduto. Gli “Stati generali” sembrano essere, al di là dei titoli, una consultazione (separata) di tanti interlocutori. Con una particolarità (o anomalia, se si preferisce): che la consultazione non è avvenuta a partire dalle proposte del Governo, che si riserva di esporle alla fine, ma sulle scalette di ciascuno dei consultati: a ruota libera.
3. Forse è per questo motivo, per il timore di dimenticare qualcosa, o di essere dimenticati, che ciascuno degli interlocutori consultati dal Governo si è presentato con un pacchetto pieno di titoli. Spesso mescolando fra loro temi e tempi diversi: dalle necessità delle imprese e dei lavoratori in emergenza alle finalità di ordine strategico, alle riforme auspicate da decenni. Una testimonianza piuttosto che una disponibilità a concordare soluzioni. Molte cose giuste senza un baricentro che aiuti a scegliere.
4. È molto probabile che anche il “pacchetto” che presenterà il Governo sia costruito nello stesso modo. Tanti provvedimenti che rispondono (in parte) a richieste ricevute, senza la necessità di fare un “patto” su una visione unitaria condivisa. Forse un modo di misurare il consenso distribuendo le risorse nazionali ed europee tra i vari ceti sociali, non certo un nuovo modello di relazioni per un “nuovo modello di sviluppo”.
5. Eppure, non era difficile, almeno per il sindacato, provare a definire un baricentro attorno al quale far ruotare le diverse proposte (proprie e degli altri). Perché, seppure in modo traumatico, la pandemia ci ha fatto capire quali sono i problemi veri e come affrontarli. Soprattutto, la crisi sanitaria, sociale ed economica, ci hanno aiutato a individuare le priorità di rilancio e le strade sbagliate per farlo.
6. Molti osservatori, non solo economici, dicono che ci troveremo di fronte alla più grave crisi occupazionale dal dopoguerra. E allora non bastano il sostegno immediato dei redditi, la liquidità o gli aiuti a questo o quel settore industriale. Bisogna creare nuovo lavoro: facendo nascere nuove imprese e aumentando la domanda di lavoro delle imprese e degli enti di servizio che ci sono e sopravviveranno alla crisi. Nuovo lavoro finalizzato prima di tutto all’impiego dei giovani e delle donne (che non possono tornare inattive): anche perché sono i giovani e le donne che possiedono le nuove competenze necessarie. Non è un atto di generosità creare nuovo lavoro: è un gesto di responsabilità economica derivante dalla necessità di innovazione (delle imprese e degli enti pubblici). Altrimenti di quale crescita di produttività si parla? Del numero dei pezzi che escono dalle fabbriche per ora lavorata? Via, siamo seri! Non si può la mattina parlare di 4.0 e di smart working e la sera rimpiangere gli straordinari e il cottimo…
7. Questa nuova politica per il lavoro, in Cgil eravamo abituati a chiamarla “Piano del lavoro” ma pare che ce ne siamo dimenticati (non ho capito il perché). A cosa è finalizzata? A rilanciare le imprese? A vuotare i magazzini? A rispondere ai bisogni dell’offerta? No. Al contrario: a rispondere ai bisogni di una domanda interna ferma da molto prima della crisi del 2008 e della pandemia. A corrispondere con merci, tecnologie e servizi ai bisogni delle persone e del territorio. All’obiettivo di migliorare le condizioni di vita dei cittadini (a partire dagli anziani soli e dimenticati da tutti) e valorizzare l’ambiente in cui viviamo. Passare dall’idea di un Welfare delle persone come impiego di una quota residuale del Pil a 2 Welfare (uno delle persone e uno del territorio) come occasione per creare nuove imprese e nuovi servizi. E svuotare il magazzino più pericoloso che esista: quello della disoccupazione giovanile, delle competenze e delle risorse non valorizzate.
8. Fatti salvi i provvedimenti di emergenza, molti dei punti elencati nei “Piani” esposti a Villa Pamphilj possono diventare gli strumenti per attuare questo nuovo disegno, se si è prima condivisa una strategia e una bussola per il futuro sociale, ambientale ed economico del Pese. Altri no. L’innovazione 4.0, le infrastrutture, la nuova mobilità, la sanità territoriale, la rigenerazione urbana, l’assistenza domiciliare, la manutenzione del territorio, la riduzione dei rischi, la valorizzazione di un turismo di qualità, la semplificazione burocratica, la formazione permanente, la scuola sono coerenti con il disegno di creare più lavoro per aumentare il benessere, l’efficienza e la qualità del Paese. Potenziare il welfare aziendale (o contrattuale) di fronte alla crisi del welfare universale, come chiede Confindustria, va nella direzione opposta. Premia la rendita e non il lavoro: senza garantire universalità e appropriatezza dei trattamenti di assistenza. Spero che il sindacato, che ha firmato fino ad ora quei contratti di welfare aziendale, sia consapevole della contraddizione.
9. Chi farà questa selezione tra cosa è utile e coerente per il Paese e cosa no? Difficile dire, dato che non esiste un disegno generale condiviso tra Governo e soggetti invitati a Villa Pamphilj. Sarà il Governo a fare le scelte e il Parlamento a ratificarle alla fine della fase di consultazione. Sarà il Governo a decidere chi ascoltare di più e chi di meno. E i progetti più utili o di maggior consenso da attuare. Se gli “Stati generali” finiranno così sarà stato commesso un abile gioco di prestigio da parte del Governo e un’incredibile “ingenuità negoziale” da parte sindacale. Fatto salvo che arbitro ultimo sull’accettare o meno i progetti sarà alla fine, in mancanza di coesione nazionale, l’Unione Europea.
10. (Sia permessa, tra parentesi, un’ultima considerazione. Sarebbe questa la “democrazia negoziale” di cui parla il neo presidente di Confindustria? Gli riconosciamo volentieri la qualità di essere esplicito nelle cose che dice. Ma gli consiglieremmo caldamente di verificare le parole. La democrazia è “la forma di governo con cui il potere viene esercitato dal popolo tramite rappresentanti liberamente eletti” dice il dizionario. Lasciamo le esperienze di “democrazia corporativa” od “organica” a fasi poco felici della storia italiana e aiutiamo la democrazia esistente a essere più efficiente senza proporre involuzioni costituzionali. Era più semplice e congruo parlare di concertazione economica fra le parti sociali, come fece Ciampi).
(*) Trattativa: ogni attività preparatoria che, mediante scambio di proposte e controproposte, prelude alla conclusione di un accordo, dice il vocabolario.
Gaetano Sateriale