“La guerra dei bottoni” è un libro scritto nel 1912 dal francese Luis Pergaud. Narra dello scontro tra i ragazzi di due borghi, Longerverne e Velrans, che si affrontano in un bosco, sorta di confine, con l’obiettivo di rimandare i rivali a casa in mutande. I bottoni strappati agli sconfitti, da cui il titolo del romanzo, che ha poi ispirato due film, sono il trofeo dei vincitori. Una rivalità senza motivi, nella cui allegra spensieratezza c’era però una premonizione. Di lì a due anni, il primo conflitto mondiale avrebbe ridotto l’Europa ad un enorme cimitero. Lo stesso autore, che nelle divertenti scorribande dei bambini scorgeva in germe la ferocia degli adulti, morirà sul fronte di Verdun.
Infantilismo, imbecillità e violenza costituiscono ora l’impasto di una nuova guerra, appena iniziata. Nella quale, invece di rompere le asole degli avversari, ci si impossessa delle loro “pezze”, come vengono chiamati in gergo i vessilli delle squadre. Una contesa senza precedenti e della quale non si intravedono gli esiti. Perché stavolta non si tratta di bandiere lasciate in terra durante uno scontro ma di una vera e propria rapina, la cui dinamica sembra degna di una spy story.
Roma, sabato 4 febbraio, dopo le 20, nei pressi dello stadio Olimpico. È da poco finita la partita con l’Empoli e i fedelissimi della Magica sciamano per tornare a casa. In piazza Mancini quattro o cinque di loro stanno per mettere in macchina i borsoni con gli stendardi. Sono del nucleo Fedayn, un gruppo storico della Curva Sud, nato al Quadraro nel 1972, con iniziali origini di sinistra. All’improvviso, sbuca dal nulla una trentina di persone con i volti coperti, armate di bastoni. Giù botte e via con il bottino. Restano a terra, feriti, due degli aggrediti.
La notizia si propaga alla velocità della luce. Parte la caccia agli aggressori. Non si sa bene come, fatto sta che si viene subito a sapere che sono supporter della Stella Rossa di Belgrado, venuti in Italia per seguire un match di basket a Milano e poi calati nella capitale per la spedizione, evidentemente ben pianificata. Nelle ore successive, saranno loro stessi, via Twitter, a rivendicare la bravata.
I romanisti corrono alla stazione, all’aeroporto, controllano gli alberghi. Niente. Un’ipotesi è che il commando sia arrivato e poi ripartito con delle macchine prese a noleggio. Qualcuno ipotizza che il raid si stato commissionato per vendetta dai supporter del Napoli (gemellati con i serbi) dopo essere usciti scornati dalla battaglia dell’8 gennaio che paralizzò l’autostrada all’altezza della stazione di servizio Badia al Pino. A loro volta, quelli della Stella Rossa ce l’hanno con i Fedayn perché avrebbero un patto di fratellanza con i rivali della Dinamo Zagrabia. Vicende di idiozia internazionale.
In un primo tempo, i giallorossi, oltre a quella di quasi tutte le tifoserie italiane, ricevono la solidarietà dei cugini laziali. Ma l’idillio dura il tempo della nottata. L’indomani, un comunicato degli ultras biancocelesti gela ogni ipotesi di comunanza e annuncia “totale” indifferenza: “A noi interessa soltanto quello che accade in casa nostra. Questa onta storica subita non è roba che ci riguarda”.
Le insegne rubate riappaiono sabato 8 febbraio, a due settimane esatte dal raid, sugli spalti dello stadio Rajko Mitic di Belgrado. Prima esposte capovolte, e poi bruciate, in segno di estremo disprezzo. Si salva solo lo striscione con la foto e il nome di Roberto Rulli, il fondatore dei Fedayn, scomparso nel 1990. Sembra, sempre seguendo un tam tam incontrollato e incontrollabile, che sia stato riconsegnato misteriosamente ai legittimi proprietari, in segno di rispetto per i morti.
Si annunciano, comunque, ritorsioni. “La guerra delle pezze” è appena cominciata. In quella dei bottoni, uno dei piccoli protagonisti propone di spingere i nemici in una caverna e di intossicarli a forza di flatulenze. Un trattamento che andrebbe riservato ai dementi del calcio.
Marco Cianca