La crisi ha rimesso in gioco figure antropologiche sepolte negli annali di storia. Una storia recente ma di cui avevamo perso il ricordo. Personaggi di umanità dolente e senza riscatto che Pasolini aveva messo al centro della sua opera letteraria e cinematografica. Accattone, Stracci (il ladrone buono del film la Ricotta che muore sulla croce dopo aver mangiato a crepapelle per saziare la sua atavica fame), Tommasino di “una vita violenta”. Quel sottoproletariato di cui Pasolini descriveva “la sua miseria materiale e morale, e la sua feroce e inutile ironia, la sua ansia sbandata e ossessa, la sua pigrizia sprezzante, la sua sensualità senza ideali, e insieme a tutto questo, il suo atavico, superstizioso cattolicesimo di pagano” e che pure era vittima di una società in cui la borghesia escludeva e marginalizzava interi strati di popolazione condannandoli alla miseria morale, culturale e materiale.
Certo la situazione dl nostro paese non è quella degli anni ‘50 o ‘60 eppure oggi è possibile rivedere quelle figure del passato a cui non eravamo più abituati o che ricordavano quelli come me che quel mondo avevano conosciuto: gli stracciaroli, i mendicanti abituali, i venditori di cianfrusaglie e di richiami di uccelli di Porta Portese e poi i baraccati del borghetto latino o i poverissimi del quartiere Monti che abitavano cantine e piani terra senza pavimenti. Questa umanità affolla di nuovo le strade del nostro paese anche se la modernità ne ha diversamente disegnato i caratteri, i corpi, le forme e i colori del viso.
La crisi attuale, che come la peste del passato ci concede illusori attimi di tregua per poi ripresentarsi con forza immutata o cresciuta, ha creato dunque nuovi eserciti di poveri e di senza lavoro. La ricchezza non si è disseccata come una pianta arsa dalla siccità ma si è abbissata in colate carsiche sottratte ai nostri occhi per gonfiare i conti di poche o pochissime persone. Lo stesso per il lavoro che si concentra nelle mani di pochi e diventa merce rara per gli altri in un processo di equalizzazione che uniforma basso lavoro (l’universale generico) e lavoro professionalizzato ( lo specifico ad alto valore aggiunto).
I giovani medici del nostro paese non si sottraggono a questo destino. E se qualcosa non avviene moriranno come “Stracci” sulla croce del non-lavoro in attesa di una casa che non avranno e di una famiglia che non costituiranno.
E’ per questo che guardo con affetto, con solidarietà e appoggio con convinzione la battaglia dei giovani medici che chiedono il ricambio generazionale, oggi e subito, al grido “tutti in pensione a 65 anni”. Questi medici (giovani solo per la professione ma meno per l’età anagrafica) non accettano una situazione che vanifica le loro sacrosante aspettative e non li ripaga dei sacrifici sostenuti e i vecchi garantiti devono avere il buon senso di farsi da parte indipendentemente dal ruolo da loro rivestito.
C’è il rischio che con il pensionamento anticipato le strutture perdano competenza importanti: questo è vero ma si potrebbe ovviare a questo istituendo una figura di tutor (non retribuita) per coloro che pur andando via sono disponibili a trasmettere il loro sapere e le loro competenze alle nuove generazioni. Perché non proporre questa soluzione? Perché non ripensare il nostro modello organizzativo rendendolo meno rigido e più adatto ad una realtà radicalmente mutata nel volgere di pochissimi anni? Di certo quello che non si può tollerare è che medici che hanno studiato non abbiano alcuna possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro e quindi sul lungo periodo di farsi una pensione che li renda autonomi in vecchiaia. Il non- lavoro non è solo mancanza di prospettiva di vita professionale ma è una cambiale che pagheranno le generazioni future costrette a farsi carico di anziani sempre più senza reddito e bisognosi di sostegno.
Roberto Polillo