Una guerra commerciale, dicono gli economisti, può tagliare fra l’1 e il 3 per cento al Pil globale in un singolo anno. Nell’ipotesi peggiore, insomma, il mondo si fermerebbe assai vicino alla crescita zero. Ecco perché è difficile sottovalutare l’offensiva scatenata da Trump sul sistema degli scambi internazionali. Certo, non lo fanno i mercati, che hanno reagito con un lungo brivido. Come tutte le medie, però, il calcolo dice, insieme, troppo e troppo poco. Per un paese come l’Italia, dove la somma di import e export è superiore a mezzo Pil, l’impatto sarebbe devastante. Per gli Stati Uniti, dove l’interscambio equivale solo al 15 per cento del prodotto lordo, meno.
Può darsi che sia questo il motivo (volendo escludere che il presidente Usa parli semplicemente a vanvera) per cui Trump pensa che il suo paese uscirebbe da una guerra con le ossa intatte, al contrario dei suoi interlocutori/concorrenti. Ma è una illusione ottica. Ancora una volta, le medie statistiche tradiscono: il fatto che sia solo il 15 per cento non ci dice di cosa si tratta. E’ come dire che i ladri sono entrati in una macelleria e hanno svuotato metà del frigorifero: hanno portato via i filetti o le animelle?
Il problema con la politica commerciale di Trump è che la Casa Bianca guarda il mondo e vede quello degli anni ’50. Ma le rivoluzioni di Internet, dei container, la liberalizzazione stessa delle frontiere hanno radicalmente mutato quel mondo, ormai da decenni. Il 70 per cento delle merci che attraversano le frontiere non sono prodotti finiti, ma parti, componenti, pezzi di qualcosa che, dopo un incessante andirivieni da una parte all’altra del globo, sarà alla fine assemblato nel posto più conveniente. L’iPhone, assemblato in Cina, conta nelle statistiche come import dalla Cina, ma il valore aggiunto dai cinesi alla somma dei componenti americani, coreani, giapponesi, tedeschi, italiani non arriva al 4 per cento del totale.
E’ un intreccio inestricabile, metterci mano può portare ad esiti imprevedibili. Lanciando i dazi sull’acciaio, Trump sembra non essersi reso conto che, per ogni lavoratore delle acciaierie Usa che, presumibilmente, ne trarrà beneficio in termini di maggior lavoro, ce ne sono altri 40 delle altre aziende americane che ne saranno colpiti, perché le loro aziende dovranno sostenere costi maggiori.
Dire se un prodotto è italiano, americano o cinese è diventato via via più complicato, anzi, inutile. Nell’immaginario non solo italiano, anche americano, la Jeep è la quintessenza dell’America. Però la Renegade viene assemblata a Melfi, in Italia. Ma il motore lo producono nel Michigan. Un altro simbolo – questa volta futuro – dell’industria automobilistica americana è la Bolt, l’elettrica della General Motors a cui è affidata la risposta alla attesa sfida delle elettriche cinesi. Ma solo il 26 per cento della Bolt è di origine americana (o canadese, visto che la Gm non si cura di distinguere). Motore e trasmissione vengono dalla Corea e, in totale, più del 50 per cento del futuro alfiere dell’auto americana, americano non è: pagherebbe dazio?
A Trump, infatti, piace agitare il bastone e, qualche settimana fa, è arrivato a minacciare dazi sulle auto, nella convinzione che le macchine abbiano un impatto mediatico superiore ai laminati di acciaio e, soprattutto, che siano il punto debole della Germania. Ma quali auto tedesche? Nel primo quadrimestre dell’anno scorso, Bmw, Mercedes, Volkswagen hanno venduto – tutte insieme – negli Stati Uniti 114.406 automobili. Ma ne hanno prodotte, nelle fabbriche che hanno negli Stati Uniti, 281.519. Ovvero, hanno importato negli Stati Uniti, meno auto di quante ne abbiano esportate dagli Stati Uniti.
Inseguire queste catene di produzione e distribuzione è impossibile. E probabilmente controproducente. Mentre Bmw, Mercedes e Vw esportavano dagli Stati Uniti, le industrie di auto Usa facevano il contrario. L’anno scorso, la Gm ha venduto in patria 3 milioni di automobili. Ma, di queste, solo 2,2 milioni erano state prodotte negli Usa: il resto era stato importato. In altre parole, in una guerra commerciale, oggi, l’elemento più importante rischia di essere il fuoco amico: sparare nei piedi delle proprie aziende.
Maurizio Ricci