Nel fare il punto sulla questione dei vitalizi degli ex parlamentari (ed ex consiglieri regionali) mi sento legittimato a rivendicare il ruolo da me svolto. Nell’estate del 2011 (non ricordo la data precisa) pubblicai sul Quotidiano nazionale un articolo di cui riporto i brani più significativi:
‘’Basterebbe un po’ di fantasia e di cultura previdenziale per risolvere il problema ricorrendo alle medesime regole valide per tutti i lavoratori e chiudendo così, per sempre, un’infinita polemica. Nell’ordinamento vigente non esistono (se non in casi eccezionali) forme di reddito che non siano sottoposte tanto al prelievo fiscale quanto alle ritenute previdenziali e che non concorrano, quindi, a determinare un trattamento pensionistico. Sarebbe assurdo se il principio non valesse più per le indennità dei parlamentari, dei consiglieri regionali e, in generale, degli eletti. Così, dalla prossima legislatura andrebbe istituita, nei bilanci delle Camere, una gestione-stralcio che si prenda, necessariamente, a carico i trattamenti già erogati, mentre i neo eletti dovrebbero essere iscritti alla Gestione separata dell’Inps, secondo il metodo contributivo e alle condizioni stabilite per la loro posizione. Sono previste, infatti, aliquote diverse a seconda che si tratti di iscritti in via esclusiva (26%), di persone già pensionate (15%) o di appartenenti ad altra gestione obbligatoria (17%) rispetto alla quale per i soggetti interessati, posti in aspettativa, opererebbe la contribuzione figurativa. Il regime dovrebbe essere quello vigente nella Gestione, sia per quanto riguarda la ripartizione dei versamenti, il loro accredito, i requisiti anagrafici e contributivi (sono sufficienti cinque anni di lavoro effettivo purché il montante versato, moltiplicato per i coefficienti di trasformazione, assicuri una pensione pari all’importo dell’assegno sociale maggiorato del 20%), il calcolo della prestazione. Grazie al metodo contributivo, un giovane deputato, non più rieletto, si porterebbe appresso l’ammontare accreditato aggiungendolo poi a quello maturato nella nuova attività. Gli altri avrebbero un assegno supplementare se già pensionati o una seconda pensione se iscritti, per la professione svolta, ad altra gestione obbligatoria’’.
Ero, allora, deputato e vice presidente della Commissione Lavoro della Camera e mi ero occupato – come relatore – delle più importanti iniziative legislative in materia di lavoro e previdenza. L’articolo fu notato, tanto che, informalmente, venni coinvolto dai competenti uffici della Camera (insieme con la collega Maria Luisa Gnecchi del Pd) per studiare un modello di riforma. Quando, alcuni mesi dopo, fu pronto il documento (che in particolare conteneva, nell’ambito di una gestione che sarebbe rimasta alla Camera, l’istituzione di una pensione contributiva al posto – pro rata o interamente – del vitalizio, nonché il passaggio da 50 a 60 anni come limite anagrafico minimo, che poi sarebbe salito a 65 anni) si aprì un confronto con gli altri partiti prima e con il Collegio dei Questori, poi. Va precisato che la proposta non ricevette degli osanna. Ma arrivò a livello della Presidenza della Camera. Per fortuna, il ministro Elsa Fornero, mentre si svolgeva in termini serrati il dibattito sulla riforma che porta il suo nome, affrontò i Presidenti delle Camere chiedendo loro di dare un segnale al Paese, superando il regime dei vitalizi e applicando dal 1° gennaio 2012 il sistema contributivo anche ai parlamentari.
Così il nostro progetto, con l’anticipo della decorrenza nel corso della XVI legislatura, venne approvato in regime di autodichia ovvero tramite una delibera dell’Ufficio di Presidenza in esecuzione di un potere autonomo riconosciuto agli organi costituzionali, tanto che la stessa giurisdizione sugli atti (anche quelli riguardante il personale) è affidata a collegi interni, di primo grado e di appello, composti da parlamentari. Ci si interroga se l’autodichia possa arrivare a ledere diritti garantiti dalla Costituzione; ma fino ad ora la Consulta non si è pronunciata su questo delicato aspetto. In ogni caso, nel corso dei decenni la materia previdenziale è sempre stata regolata con provvedimenti assunti in autodichia diversamente dalla indennità per la quale è previsto, nella Carta fondamentale, il ricorso alla legge.
Tutto ciò premesso la gogna per l’assegno vitalizio dei parlamentari è divenuta l’ultima raffica dell’antipolitica. E non è servito ricordare che questa prestazione ha cessato di esistere alla fine del 2011. Dal 2012, infatti, anche i parlamentari avranno una pensione calcolata – per intero o pro rata – con le regole del sistema contributivo: allineamento tendenziale dell’età pensionabile, requisito minimo di 5 anni effettivi, accredito annuo del montante contributivo in misura del 33% dell’indennità, applicazione dei coefficienti di trasformazione in rapporto all’età di quiescenza, aggancio automatico all’attesa di vita e quant’altro incluso negli ordinamenti pensionistici degli italiani. Ovviamente sono sempre possibili ulteriori armonizzazioni.
E’ cambiata anche la normativa della reversibilità, dal momento che, come stabiliscono le regole generali, le future prestazioni ai superstiti saranno proporzionate al reddito dei soggetti che le ricevono. Un’altra revisione importante riguarda i criteri di rivalutazione degli assegni erogati. In precedenza, esisteva una sorta di clausola-oro, nel senso che i vitalizi erano agganciati all’evoluzione delle indennità dei parlamentari in corso di mandato (per altro bloccata da anni). A riforma compiuta, varrà un sistema di perequazione automatica delle prestazioni legato al costo della vita come per tutti i pensionati. La riforma, dunque, è stata seria ed incisiva; ha operato per intero per i deputati e i senatori che sono entrati o entreranno in Parlamento dopo il 1° gennaio 2012; e si applicherà, pro rata, per quanti hanno esercitato il mandato elettivo fino a tutto il 2011 (fino ad allora è operante il vitalizio). Il problema, allora, cambia pelle e pone due specifici interrogativi: se è corretto riconoscere una pensione ai parlamentari per l’attività svolta; che cosa fare dei vitalizi già erogati.
Sul primo quesito: a parte ogni altra valutazione di carattere politico (o, se vogliamo, anche etico), in Italia tutte le tipologie di reddito ‘’da lavoro’’ sono sottoposte – come già ricordato – non solo a tassazione, ma anche a prelievo contributivo; e danno pertanto luogo ad una pensione, anche nel caso in cui il soggetto sia già iscritto ad una propria gestione obbligatoria o sia pensionato. Non si capirebbe perché dovrebbe essere esclusa da tale disciplina la sola indennità dei parlamentari. Vi saranno anche delle riduzioni importanti di spesa. Nel regime dell’assegno vitalizio, Montecitorio incassava 12,5 milioni di versamenti contributivi dai deputati ed erogava circa 130 milioni per le prestazioni. In pratica vi era un rapporto tra entrate e spesa di uno a dieci. Quando la riforma andrà a regime, tale rapporto sarà di uno a tre/quattro.
I principali risparmi deriveranno dall’elevazione del requisito anagrafico e dalla riduzione dell’importo delle future pensioni rispetto a quello dei vitalizi. Si stimano ‘’tagli’’ che vanno da 500 ad oltre 2mila euro mensili lordi a seconda del numero di legislature e dell’età: in pratica i nuovi assegni pensionistici risulteranno inferiori tra un terzo e la metà dell’importo dei vitalizi. Per quanto riguarda, poi, i trattamenti in corso di erogazione potrebbero essere fissati dei contributi di solidarietà, anche di carattere strutturale. Se poi si volessero ricalcolare gli assegni vigenti con il metodo contributivo, occorrerebbe, almeno, tener conto non solo dei versamenti effettuati dal parlamentare, ma includere, nel conteggio, un ammontare pari a circa il triplo a carico delle Camere, come avviene nel caso di tutti i lavoratori (a cui viene accreditata anche la quota spettante al datore per un complessivo 33%).
Con il ddl Richetti si è voluto seguire la pervicacia abolizionista del M5S, ma lo si è fatto con lo strumento sbagliato. Non si comprende, infatti, perché non si sia agito nell’ambito dell’autodichia ma con una legge palesemente incostituzionale e per sua natura soggetta all’esame della Consulta. Ma perché giudichiamo incostituzionale la legge Richetti nella versione approvata dalla Camera ed insabbiata dal Senato? Non c’è soltanto la questione dei diritti acquisiti (come sono state ritenute fino ad oggi le prestazioni erogate in conformità alle norme a suo tempo vigenti); ci sono altri aspetti, tra i quali le incoerenze del testo rispetto agli stessi principi che lo hanno ispirato. E quando non si rispettano neppure i principi che si vengono sbandierati in un provvedimento, si dimostra soltanto la propria malafede. Chi non è in grado di attenersi alle regole che vuole imporre, commette dei veri e propri arbitri. Il dna del progetto di legge Richetti non voleva fare giustizia; intendeva soltanto colpire ed umiliare chi, bene o male, ha rappresentato il popolo sulla base di un mandato ricevuto dagli elettori. Non c’è nessun senso di giustizia nella vendetta: solo odio e viltà.
Ma procediamo con ordine nel sostenere le nostre tesi. Andiamo all’incipit dell’articolo 1 del testo varato dalla Camera (attraverso la dittatura di una maggioranza che in realtà è una minoranza dopata dal premio elettorale), dove si affermava con una solennità farisaica: ‘’ Al fine di rafforzare il coordinamento della finanza pubblica e di contrastare la disparità di criteri e trattamenti previdenziali, nel rispetto del principio costituzionale di eguaglianza tra i cittadini, la presente legge è volta ad abolire gli assegni vitalizi e i trattamenti pensionistici, comunque denominati, dei titolari di cariche elettive e a sostituirli con un trattamento previdenziale basato sul sistema contributivo vigente per i lavoratori dipendenti delle amministrazioni statali’’. Il criterio-guida era, dunque, quello di trattare gli ex parlamentari e quelli in carica, per la parte coperta dal vitalizio, come i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, applicando loro il calcolo contributivo. Prima contraddizione: ma i dipendenti presi a riferimento, alla stregua di tutti gli altri lavoratori subordinati ed autonomi, hanno avuto a che fare, in tutto o in parte, col calcolo contributivo soltanto a partire dal 1996.
Perché nel caso dei parlamentari – in carica ed ex – si doveva risalire ancora più indietro? Si sarebbe potuto rispondere che si trattava di un primo passo, di sondare il terreno per procedere oltre, ma che in seguito questa regola sarebbe stata applicata a tutti i profittatori del regime retributivo. No, non è così. Per non farsi inseguire con i forconi dal 95% dei pensionati italiani (liquidati in generale con il retributivo fino al 1° gennaio 2012), gli ‘’ammazza vitalizi’’ avevano voluto cautelarsi, scrivendo nel testo (articolo 12 comma 5) quanto segue: ‘’ la rideterminazione di cui al presente articolo non può in alcun caso essere applicata alle pensioni in essere e future dei lavoratori dipendenti e autonomi’’. Così i ‘’tribuni della plebe’’ avevano messo in sicurezza persino le c.d. pensioni d’oro. Per umiliare qualche migliaio di ex parlamentari e di consiglieri regionali (per i quali una legge era necessaria), hanno garantito persino coloro (e sono centinaia di migliaia) che hanno davvero tratto un effettivo vantaggio ingiustificato – piccolo o grande che fosse – dall’applicazione del calcolo retributivo.
Ma anche questo emendamento era scritto sull’acqua. Alla fine, la norma ‘’salva pensioni retributive’’ era solo di una foglia di fico, perchè una nuova legge ordinaria avrebbe sempre potuto abrogare o modificare quanto disposto da una precedente. Ma a prendere in parola il legislatore viene da chiedersi perché si volesse fare questo scherzo soltanto ai parlamentari? Torniamo a leggere l’articolo 12 al comma 5 che ce lo spiega: ‘’In considerazione della difformità tra la natura e il regime giuridico dei vitalizi e dei trattamenti pensionistici, comunque denominati, dei titolari di cariche elettive e quelli dei trattamenti pensionistici ordinari…..’’. ‘’Ma come?’’ si domanderà a questo punto – se c’è – un lettore in buona fede: ‘’Si era partiti dicendo che le differenze vanno superate e che i parlamentari devono essere trattati come gli altri lavoratori, poi si finisce per riconoscere le stesse difformità che si volevano abolire?’’. Ma non basta. Logica avrebbe voluto che, se calcolo contributivo deve essere, lo fosse in ogni caso. Uno aveva diritto di avere un trattamento conforme a quanto ha versato (e a quanto è stato versato per lui)? Si tagliava a chi aveva avuto di più (la grande maggioranza): ma se qualcuno – a conti fatti – col calcolo contributivo ci avesse guadagnato, che cosa sarebbe successo? Gli si aggiustava la pensione? Assolutamente no ! Era sempre in agguato l’articolo 12 a stabilire in modo estremamente chiaro che: ‘’In ogni caso l’importo non può essere superiore a quello del trattamento percepito alla data di entrata in vigore della presente legge’’. Ecco che così resuscitava il vitalizio.
Infine c’erano dei limiti tecnici insuperabili per chi volesse fare le cose in maniera corretta e non ‘’a un tanto al kg’’ come nel disegno di legge in discussione. Per applicare il calcolo contributivo sarebbe stato necessario conoscere prima di tutto l’ammontare dei contributi versati. Ciò era impossibile perché questi versamenti non sono stati effettuati. Gli uffici amministrativi del Parlamento, fino all’entrata in vigore pro rata del contributivo a partire dal 2012, si limitavano a riscuotere la quota a carico del soggetto, poi, al momento stabilito e sulla base di quanto disposto dal regolamento, erogavano il trattamento in termini di cassa, come fino ad allora avevano fatto con le indennità e le altre voci retributive. Era più o meno la stessa operazione che le amministrazioni statali compivano per i propri dipendenti al momento della cessazione dal servizio, prima che fosse istituita nel 1996 un’apposita gestione presso l’Inpdap. Così il progetto di legge Richetti sul calcolo era costretto a barcamenarsi con modalità del tutto spurie, pensate ad hoc per i parlamentari, che meritano di essere puniti per una qualche misteriosa ragione, come se fossero ebrei ai tempi dell’Inquisizione. Purtroppo, i media in questo pogrom hanno agito o agiscono da agit-prop.
Nella XVIII legislatura il M5S ha chiesto ed ottenuto la presidenza della Camera allo scopo dichiarato di abolire un numero maggiore di vitalizi, attraverso l’autodichia. Come abbiamo visto è una via percorribile da cui la Consulta si tiene lontana. Lo si è visto nel caso della delibera palesemente incostituzionale – assunta in ambedue le Camere il 7 maggio 2015 – che stabiliva la soppressione del vitalizio per i parlamentari condannati in via definiva per taluni specifici reati con pene superiori ai due anni; e, da ultimo, nella delibera dell’Ufficio di Presidenza della Camera del 22 marzo 2017 che ha disposto, riconfermandolo, l’applicazione di un contributo straordinario modulato sui vitalizi e sui trattamenti pensionistici diretti ed indiretti per un triennio, dopo che la Corte Costituzionale, con sentenza n.173 del 2016, aveva ribadito che il contributo stesso non può essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza.
Se si vuole usare la mannaia ai danni di tanti anziani signori che credevano di aver servito il Paese e scoprono, invece, di averlo defraudato e derubato, si proceda pure. Questo non è forse il tempo degli Unni?
Giuliano Cazzola