Nell’ormai lontano 1964 l’Associazione dei deportati politici della mia città organizzò una visita ai campi di concentramento e di sterminio nazisti. In quell’occasione l’Associazione volle invitare dei rappresentanti dei movimenti giovanili dei partiti. Io fui designato dalla Federazione giovanile socialista. I partecipanti erano ex deportati, famigliari di quanti non erano sopravvissuti, in generale persone che erano state direttamente segnate da quella tragedia. Il viaggio si svolse a bordo di un bus di quei tempi percorrendo strade statali con tutti i disagi che oggi siamo in grado di immaginare. Per me fu un’esperienza indimenticabile, non solo per la presa d’atto di quanto era accaduto (durante la mia vita essendo nato nel 1941), ma anche per il fascino che esercitavano alcune di quelle persone, già anziane, che avevano combattuto il fascismo tutta la vita, conosciuto anni di galera e tante esperienze da raccontare a noi giovani. Il pellegrinaggio della memoria si svolse in Austria, salvo un breve passaggio in Germania, in una zona (Gusen) vicina al confine, dove al posto del campo era stato eretto un monumento commemorativo per iniziativa dell’Associazione dei superstiti che aveva dovuto acquistare un lotto di terreno, All’interno di questo edificio era stato collocato il forno crematorio. Il viaggio durò alcuni giorni (con i relativi pernottamenti) durante i quali visitammo un gran numero di Campi, osservando de visu le loro caratteristiche. Ma soprattutto faceva impressione il loro numero, che, se si guarda la cartina, erano solo una parte di quelli in cui la delegazione si fermò, scegliendo prevalentemente i luoghi in cui vi erano memorie personali dei componenti della Associazione. A pochi km da quegli orrori vi erano ridenti cittadine che sembravano uscite da cartoline illustrate. Visioni che ponevano degli interrogativi inquietanti su quanto era accaduto in quei luoghi nella indifferenza di chi vi abitava. Ma poi ci si rendeva anche conto che non si può sopravvivere altrimenti quando ci si affaccia alla finestra e si vede il Golgota ad un tiro di schioppo. Il campo che mi fece più impressione fu quello di Mauthausen, il più grande e quello meglio conservato, persino con le baracche. Si trova nel Nord del Paese nei pressi di Linz, una città di grandi tradizioni culturali e musicali, come tante altre del Reich vicino alle quali erano stati costruiti i Lager come se la “nuova umanità” dovesse mostrare, in questo modo, il suo disprezzo per la “vecchia”. A Mauthausen (già campo di punizione e di annientamento (128mila le vittime accertate) attraverso il lavoro forzato nella vicina cava di granito, e la consunzione per denutrizione e stenti, pur essendo presenti anche alcune piccole camere a gas) era in corso la celebrazione di una ricorrenza, forse del giorno delle Liberazione da parte delle truppe americane il 5 maggio 1945. Vi erano molte persone provenienti da diversi Paesi. Ricordo che vi era una folta delegazione italiana, con un sottosegretario socialista, ex deportato in quel Campo. Ma l’impressione fu più inquietante la ho provata anni dopo, da adulto già dirigente sindacale da oltre un decennio, a Buchenwald. Allora il Campo di Sterminio si trovava nella DDR. La Cgil dell’Emilia Romagna aveva un gemellaggio con il sindacato del Distretto di Suhl in Turingia ed è capitato spesso che ci fossero degli scambi di delegazioni. In una di queste occasioni io e gli altri che erano con me fummo accompagnati a visitare Weimar, una città ben conservata dotata di un fascino speciale perché si avverte ancora il palpito della cultura tedesca: la città di Goethe e dei grandi filosofi idealisti, dei musicisti, della Costituzione i cui valori permearono quelli della nostra. Dopo un giro turistico per Weimar fummo portati attraverso una foresta di betulle al Campo. Ricordo che era meno integro di Mauthausen. Al posto delle baracche per esempio c’erano delle grandi fosse delle stesse dimensioni piene di carbone; ma i forni crematori e le camere a gas sembravano ancora evocare quei massacri quotidiani di migliaia di persone innocenti. Tuttavia, se leggere direttamente la scritta sull’insegna dell’accesso (“Il lavoro rende liberi”) è come ricevere un pugno nello stomaco, io non ero nuovo a quella triste esperienza. Nel mio giro attraverso l’Austria avevo visto di peggio. Ma ciò che non potrò mai dimenticare è la vicinanza di Buchenwald con Weimar, come se da Roma si facesse un salto a Frascati o a Genzano. Poi, invecchiando e leggendo diversi libri sull’antisemitismo nel Vecchio Continente, mi sono reso conto che l’Olocausto di cui l’Europa si rese responsabile, non è stata un incidente della storia. E purtroppo, non si tratta di una pagina chiusa per sempre. L’antisemitismo è una piaga mai suturata nella storia secolare dell’Europa, sulla quale ha potuto imporsi la “banalità del Male” del nazismo. Ma le radici erano piantate in vicende tragiche e spietate di secoli di autodafé, di pogrom, di ghettizzazione, di conversioni forzate, di negazione dei più elementari diritti, di torture e massacri. Anche questo passato dovrebbe essere ricordato in questa giornata. Hannah Arendt ha spiegato i motivi di questo odio ancestrale che non ha solo aspetti religiosi (gli ebrei sono stati qualificati per secoli dalla Chiesa Cattolica, come “deicidi”, gli uccisori di Dio). Toccò a Giovanni Paolo II, quando si recò a visitare la Sinagoga di Roma, dichiarare che non solo non hanno nessuna colpa le generazioni che si sono succedute nel tempo, ma neppure l’intero popolo ebraico di allora, perché la responsabilità del morte Gesù ricade soltanto su coloro che la vollero, agendo con settarismo ed ingiustizia. Come ha scritto la politologa tedesca l’astio verso gli ebrei nasceva dal loro essere una comunità sovranazionale che poi non era altro se non una reazione difensiva rispetto alla diaspora. Di qui le critiche riguardanti la loro estraneità alle comunità nazionali e la loro identificazione con i poteri forti che a dire dei nazionalismi condizionavano la vita dei popoli. Chi scrive, cattolico praticante, porta al collo una catenina a cui sono appesi sia il crocefisso che la stella di Davide: è un modo per riconoscere la radici giudaico-cristiane dell’Europa. Ma anche un’espressione visibile di solidarietà nei confronti di un popolo perseguitato che, ancora oggi, deve guardarsi dall’ostentare i suoi simboli. Sono in tanti coloro che si scaricano la coscienza commemorando gli ebrei morti durante l’Olocausto, per criticare quelli vivi assediati, da nemici troppe volte giustificati, in quella terra promessa che è lo Stato d’Israele. Poi non è un mistero che l’antisemitismo sia tuttora vivo e vitale in Europa. E non riguarda soltanto i settori dell’Islamismo radicale, ma cova anche nelle cellule cancerogene dei gruppuscoli neo-nazifascisti, i cui militanti – come se rispondessero ad un riflesso pavloviano – fanno dell’antisemitismo uno dei loro “credi” centrali.
I Campi di sterminio nazisti disseminati in Austria