“La ricerca di nuovi diritti di partecipazione può servire molto nella difficile opera di ricomposizione solidaristica degli interessi fra i lavoratori della società postindustriale…”. Sono parole di Tiziano Treu, Presidente del Cnel, sembrano scritte in questo difficile periodo, mentre invece sono state pronunciate in un convegno del lontano 1989. Forse non si è fatta molta strada in quella direzione ma e’ comunque interessante notare come il tema della partecipazione, già allora, sia stato collocato all’interno di una scenario assai più vasto di quello specifico delle attività e delle prospettive delle imprese. Uno spunto che anche oggi merita di essere valutato per saper guardare avanti, e proprio quando nel movimento sindacale ci si interroga su come poter rappresentare efficacemente il lavoro dopo il terremoto economico e sociale suscitato dalla pandemia. Un interrogativo che non è una fuga in avanti: è facile intuire che quando gli effetti pandemici si diraderanno ci troveremo ad affrontare un enorme problema occupazionale già segnalato dal milione di posti di lavoro persi nel 2020, la necessità di attualizzare i sistemi sanitario e di protezione sociale, l’esigenza di riorientare con decisione le politiche industriali e quelle indirizzate alla crescita complessiva del nostro Paese.
Tre questioni nelle quale scorre uno dei problemi più complessi da aggredire: quello della frammentazione del mondo del lavoro che viene da lontano ma che ormai è diventato un nodo ineludibile, pena la perdita di ruolo del movimento sindacale, ma ancor di più la cristallizzazione delle diseguaglianze sociali e territoriali con conseguenze pericolose anche sul piano della nostra vita democratica.
Sarebbe allora saggio cercare di alzare lo sguardo anche oltre la fase dell’emergenza per cercare di non farci sorprendere nuovamente dai cambiamenti che sono intercorsi negli ultimi decenni. Basta pensare alla crisi del ceto medio, alla esplosione del precariato, e più ancora al fallimento del turbo capitalismo a favore di concentrazioni di potere finanziario e di colossi tecnologici sfuggenti ad ogni controllo, compreso quello…fiscale . Ma occorrerebbe concentrarsi anche su cosa accadrà quando il compito assolto dalle Banche centrali nell’assecondare i deficit statali e di fatto sostituirsi alle politiche economiche dei vari Paesi dovrà giocoforza attenuarsi, lasciando campo libero a quelle forze finanziarie ed economiche chi in quel momento saranno in campo, sopravvissute alla crisi ed alle conseguenze della pandemia. Sarà inevitabile che allora si creeranno rapporti di forza sfavorevoli allo sforzo di rimettere al centro della ripresa il lavoro e la sua dignità.
A questo punto occorre ovviamente saper interpretare bene quel che avviene attorno a noi. Ma ecco che si aprono due possibili strade, quella di un neo-movimentismo e quella di un percorso di partecipazione che non escluda ovviamente anche una carica contestativa là dove è necessaria. Il neo-movimentismo però per sua natura si è nel passato nutrito di un antagonismo che in tempi di cambiamenti radicali rischia alla fine di delegare ad altri la soluzione dei problemi. Ed è probabilmente oggi in parte l’erede di quella logica politica antisistema che si è poi rivelata del tutto inadeguata a governare la situazione ed a progettare il futuro.
In tal senso il movimentismo è comunque più proprio di una azione sul piano politico, ma appare poco utile a mantenere una forte concretezza dell’iniziativa sindacale che ha bisogno più che mai di rapporti continuativi con le controparti e le Istituzioni e di un radicamento territoriale che permetta di collegare nuove scelte industriali a quelle di natura tecnologica e ambientale nella società.
Sarà fondamentale nei prossimi mesi ed anni attuare strategie che colleghino stabilmente produzione ed ambiente, partecipazione nell’azienda ed impegno nel territorio per riuscire proprio con questa duplice interdipendenza a restituire centralità al lavoro. Il lavoro, inutile negarlo, potrà tornare ad essere il reale punto di riferimento per il ritorno alla crescita economica e civile se si riuscirà a stabilire un rapporto fra produzione e innovazione da un lato, territorio dall’altro.
Di conseguenza la dimensione territoriale dell’impegno sindacale in questa prospettiva rimane importante. Si è prospettato, nella discussione sindacale che si è sviluppata nel tempo, di come muoversi in questa dimensione fondamentale del lavoro sindacale. Dalla Cgil è arrivata ad esempio la suggestione del sindacato di strada, che raccolga tutte le tipologie del mondo del lavoro, sempre più balcanizzate dalla crisi e dalla pandemia. Certamente c’è una esigenza forte di ricomposizione. Del resto la Uil immaginò alla fine degli anni ’80 il sindacato dei cittadini che voleva , per dirla con… Vittorio Foa, impedire che i lavoratori fossero cittadini in fabbrica e sudditi nella società. Nel prossimo futuro, non vi è dubbio, dovremo come sindacato recuperare il tema delle riforme a partire da un nuovo assetto della sanità, della sicurezza sul lavoro, del welfare. Ma quello che può favorire una ripresa di iniziativa su questo versante è proprio una comune cultura partecipativa che dalla produzione si estenda nella società e favorisca proposte e protagonismi in grado di dare soluzione alle molteplici esigenze dei lavoratori e delle loro famiglie. Il filo rosso della azione sindacale in prospettiva non può che essere una nuova, unitaria, cultura partecipativa da riempire di contenuti che potrebbe, inoltre, rafforzare l’unità fra Cgil, Cisl e Uil, visti i tanti punti in comune esistenti.
Fra la fabbrica ed il territorio non deve esserci frattura, proprio ora che si allontanano i livelli decisionali nella prima e che si addensano problemi sociali nella seconda. Altrimenti, il caso di Taranto lo dimostra, rischiamo di importare all’interno del movimento sindacale contraddizioni che sono nate e cresciute al di fuori di esso.
Certo, bisogna fare i conti con…l’oste. Ovvero con l’imprenditoria. Ma anche in questo caso una visione antagonista può farci perdere l’opportunità di cogliere gli elementi evolutivi che stanno emergendo nel mondo imprenditoriale. Che ci sia in atto un ripensamento rispetto al passato è indubbio: un esempio viene dal più grande fondo di investimento globale, BlackRock, che sta indirizzando i suoi investimenti verso aziende che si muovono in una logica di compatibilità fra sviluppo e territorio. E per attuare la transizione ecologica è indispensabile un sistema di relazioni industriali e con le Istituzioni territoriali che sia in grado di non disperdere le risorse, dare certezza ai progetti anche con quella coesione sociale senza la quale sarà difficile procedere in modo deciso e tempestivo. Infine rimane il problema di un gigantesco processo di formazione nel mercato del lavoro da avviare ed incrementare e che richiede, come è facile intendere, scelte di partecipazione.
Gino Giugni, il cui apporto ai diritti del lavoro è inoppugnabile, sosteneva che il sindacato ha sempre avuto problemi con la gestione dei risultati positivi ed importanti che riusciva ad ottenere. Quasi che la mobilitazione per arrivare ad essi fosse non solo il mezzo necessario ma praticamente anche un fine. Ed il dopo, ovvero la sorte delle conquiste, pareva quasi interessare meno. Probabilmente è giunto il momento di rispondere con un salto di qualità nella iniziativa sindacale a questo appunto. Specialmente se vogliamo supportare, come siamo capaci di fare, le innumerevoli difficoltà cui lavoratrici e lavoratori devono far fronte. Evitando di scivolare in corporativismi, in illusorie scelte individuali, in ritardi esiziali. La strada della partecipazione, un percorso comunque in salita viste le condizioni del Paese, può invece contribuire a riunificare tante urgenze e tanti solitudini. Recuperando al tempo stesso capacità propositiva e la grande forza che esiste nel mondo del lavoro per obiettivi utili a cambiare in meglio quella che deve restare una vera civiltà del lavoro.
Paolo Pirani