Nella storia del riformismo il sindacato “titolare” di un riconoscimento giuridico in grado di dare certezza alla rappresentatività e forza erga omnes ai contratti è stato presente e sostenuto da grandi esponenti del movimento sindacale come Bruno Buozzi, ma non solo. E non si è trattato di cultura consociativa visto che il tema della partecipazione veniva affrontato secondo la logica di rafforzare il ruolo autonomo e di “contropotere” dei lavoratori e delle loro rappresentanze nei confronti delle controparti anche quando si trattava di individuare sbocchi di partecipazione.
Le vicende che portarono nel secondo dopoguerra alla formazione della Cgil unitaria prima e degli articoli della Costituzione poi inattuati come l’articolo 39 e gli altri inerenti alle questioni del lavoro hanno visto, da un lato la prevalenza delle scelte politiche e non poteva essere altrimenti, dall’altro l’ingresso in quella che potremmo definire una sorta di costituzione materiale del sociale della accettazione che la rappresentanza del lavoro dipendente fosse svolta da Cgil, Cisl e Uil.
L’autonomia sindacale dei decenni successivi e il rafforzamento del potere confederale e delle categorie ha, per così dire, consolidato questa concezione che, però, ha dovuto fare i conti con cambiamenti di ogni tipo fino ad approdare al terzo millennio con qualche desiderio da parte di settori politici e finanziari di relegare il tutto a memoria storica invece che prolungare l’effetto di una asserzione condivisa anche perché in grado di garantire la coesione sociale.
Del resto anche nei momenti di maggiore divisione, dagli anni ’50 fino a tempi più recenti, pensiamo alla rottura di San Valentino sulla scala mobile, le Confederazioni non hanno mai abdicato al dovere di rappresentare gli interessi generali dei lavoratori secondo il criterio di una confederalità responsabile.
Potremmo dire che, anche per tale motivo, si è assistito al tramonto di quella Costituzione materiale ma non di certo alla necessità di avvalersi nell’attuale società del lavoro di un ruolo sindacale protagonista.
E’ molto importante allora che si torni a discutere non tanto di singoli momenti nei quali la rappresentatività viene messa alla prova, una volta sul salario, un’altra sulla bilateralità, un’altra ancora sul welfare, quanto invece sulla esigenza di ripartire da un punto fermo: risolvere una volta per tutte il nodo della rappresentanza. E vi è un modo che fa parte anch’esso della tradizione riformista ed è quello di arrivare ad una legislazione di sostegno che al dunque, visto che si è continuamente in tema di riletture costituzionali, risolva anche il dilemma ormai storico della attuazione dell’art. 39 della Costituzione e più in generale restituisca al ruolo contrattuale del sindacato confederale una centralità che non può essere messa in discussione dall’esame della realtà ma che può invece esserlo per obiettivi di piccolo cabotaggio o per ricorrenti tentazioni di delegittimare le organizzazioni sindacali secondo i dettami liberisti.
La strumentazione per dare certezza alla rappresentatività esiste e la si può trovare negli accordi interconfederali stipulati in questo primo periodo del terzo millennio con il compito di evitare la frantumazione contrattuale fino ad arrivare ai contratti privati, di assicurare alla negoziazione protagonisti in possesso di requisiti certi di rappresentatività, di estendere erga omnes diritti e benefici economici in una situazione nella quale riemergono rischi consistenti di arbitrarietà come pure di nuovo sfruttamento senza regole.
Ma c’è una questione in più che avanza: è urgente intervenire. Lo è a fronte di contratti che non sono rinnovati per più di sei milioni di lavoratori da anni, lo è per i tentativi di indebolire la bilateralità nella quale il valore della confederalità è indiscutibilmente prevalente, lo è perfino per interpretazioni dell’art. 36 della Costituzione che potrebbe offrire a settori della magistratura l’opportunità di decidere sulla materia salariale e quindi di metter fuori gioco il sistema della contrattazione che non si risolve in una sentenza ma invece consiste in un continuo procedere delle relazioni industriali che tengono quindi conto del variare delle situazioni economiche e lavorative.
Vi è, inoltre, una ulteriore osservazione da valutare: finora le incursioni della politica nelle materie del lavoro tendono più ad affermare una logica propagandistica per catturare consenso che favorire una evoluzione delle relazioni fra le parti sociali come i cambiamenti epocali dal punto di visto tecnologico, dei mercati, della concentrazione e dislocazione delle proprietà richiederebbero. Si arriva al paradosso che la gran parte delle forze politiche è digiuna o quasi di strategie di politica industriale, il loro vero compito, mentre “svaria” con disinvoltura su temi del lavoro che sono propri delle forze sociali. Non ci si accorge infatti che in tal modo si favoriscono da un lato la tentazione a risolvere il ruolo sindacale in quello di mera opposizione, dall’altro di incoraggiare scelte isolazioniste per rivendicare una propria identità.
La proposta che viene avanzata, molto positivamente, dalla Uil proprio in questi giorni, di una legge di sostegno sul problema della rappresentanza ha, quindi, anche il merito di riproporre un dialogo fra forze sindacali e politica in grado di valorizzare il ruolo di entrambe. Naturalmente anche le rappresentanze datoriali devono fare la loro parte. Non vi è dubbio che si è constatato un logoramento della loro rappresentatività sia nel mondo produttivo che in quello del terziario, sempre per le mutazioni cui è inevitabilmente sottoposta l’imprenditoria. C’è un mondo di piccole e medie imprese che ormai appaiono ben più “potenti” dei grandi gruppi industriali di una volta. La stessa Confindustria dopo l’uscita della Fiat di Marchionne che concludeva una intera storia imprenditoriale, deve fare i conti non solo con le uscite o con il potere esercitato dai grandi gruppi ancora esistenti ma, anche, con tendenze di imprenditori tese a risolvere in casa propria i rapporti con i lavoratori che riducono di non poco il valore della rappresentanza complessiva.
E di certo la fine del tentativo delle Associazioni imprenditoriali delle piccole imprese del terziario di costituire un polo unitario aggiunge a questo scenario altri elementi di inevitabile difficoltà.
Eppure lo sforzo di restituire alla rappresentanza più…verità, dovrebbe assolvere ad un compito di cui si avverte l’esigenza in una stagione economica e sociale per molti versi difficile da decifrare: rivitalizzare il rapporto fra le forze sociali, la politica, la cultura, i movimenti al fine di riportare con i piedi per terra le sfide che debbono preparare il futuro. Bisogna insomma ascoltare di più quello che si muove nella società e può essere rappresentato con autorevolezza per risolvere i problemi, offrendo di conseguenza la possibilità di contare per quello che vale, e non per assecondar assurde mode “dell’uno conta uno” effettivamente e molto di meno le spinte opportunistiche e disgregatrici che non mancano mai.
Paolo Pirani
Consigliere CNEL