Lorenzo Bordogna – Professore straordinario di Sociologia economia, all’Università degli studi di Brescia
(vedi in Documentazione)
1.
Il Documento di Programmazione economico-finanziaria per gli anni 2003-06, deliberato dal Consiglio dei Ministri nella stessa giornata in cui è stato siglato il ‘Patto per l’Italia’ con Cisl e Uil (5 luglio), contiene varie parti dedicate alla Pubblica amministrazione, con ricadute possibili sul personale. In particolare, la sezione intitolata ‘La Pubblica Amministrazione, l’e-government e le politiche di razionalizzazione degli acquisti’ (sezione IV.2.7) contiene due riferimenti, peraltro molto sintetici, uno attinente lo sviluppo delle attività di formazione, il secondo la diffusione di ‘modelli flessibili di lavoro’. Un terzo riferimento, con possibili importanti effetti sul personale, concerne lo snellimento delle strutture organizzative, anche attraverso la già disposta riapertura della delega della L. 59/97, la realizzazione del governo elettronico e il ricorso all’esternalizzazione.
Dal punto di vista dei rapporti con i sindacati la questione più delicata è probabilmente quella relativa ai processi di esternalizzazione, sebbene al momento alquanto indeterminata. Nei commenti di stampa sono tuttavia state riprese soprattutto le prime due indicazioni. Circa la formazione dei dipendenti pubblici, oltre all’utilizzo delle moderne tecnologie informatiche, il Dpef prevede un aumento degli investimenti ‘verso il 2% del monte salari’. Il che costituisce un obiettivo ambizioso e un incremento significativo rispetto alla situazione attuale, che avvicinerebbe la situazione italiana a quella dell’Ue. Ma, come specifica lo stesso Dpef, è una previsione soggetta ai limiti di compatibilità della spesa pubblica. In tempi in cui la coperta sembra farsi sempre più stretta in relazione alle esigenze che dovrebbe coprire, non è impossibile che gli incrementi previsti restino inattuati o rinviati nel tempo; né sarebbe la prima volta.
E’ però sulla ‘cura di flessibilità’ che è stata posta l’enfasi maggiore. In una intervista[1], lo stesso ministro della Funzione pubblica, commentando le indicazioni del Dpef, ha sottolineato l’esigenza di ‘evitare anzitutto che il pubblico impiego resti paradossalmente indietro rispetto a quello che si sta facendo nel mercato del lavoro privato’, ed ha rimarcato come le forme di lavoro flessibile possano aiutare la Pubblica amministrazione ‘a rispondere al fabbisogno di personale senza moltiplicare le assunzioni a tempo indeterminato’, nonché ad evitare il ricorso improprio ai rapporti di consulenza per aggirare il blocco delle assunzioni (‘piuttosto che continuare a dire blocchiamo le assunzioni e poi utilizziamo i consulenti è molto meglio ricorrere a una forma di lavoro flessibile’). Due sembrano quindi le questioni sollevate: lo scarso utilizzo di forme di lavoro flessibile rispetto al settore privato, ed un uso improprio almeno di alcune di esse (presumibilmente le prestazioni professionali e le collaborazioni coordinate e continuative).
2.
Non è facile, alla luce dei dati disponibili, valutare la portata delle due questioni sollevate. E’ opportuno tuttavia distinguere tra situazione normativa e effettiva utilizzazione di forme di lavoro flessibile (o meglio, non-standard).
Strumenti di impiego flessibile del personale non sono assenti nel mondo del lavoro pubblico, sebbene siano stati introdotti con un certo ritardo rispetto al settore privato. Nel giugno 1998, alla vigilia della tornata contrattuale per il quadriennio 1998-2001 (la seconda dopo la riforma del 1993), tra gli indirizzi indicati all’Aran dall’Organismo di Coordinamento dei Comitati di Settore – nel quale esercita un ruolo di rilievo lo stesso ministro della Funzione pubblica – vi era anche la promozione delle ‘diverse forme di impiego flessibile del personale’ e del part-time. In coerenza con le sollecitazioni provenienti dalle amministrazioni, nell’estate 1999 e in quella dell’anno successivo l’Aran ha raggiunto con le confederazioni rappresentative due importanti accordi-quadro per l’introduzione del telelavoro e del lavoro interinale, aprendo la strada alla contrattazione di comparto e integrativa. Tali strumenti si sono aggiunti ad altri già in vigore, quali il lavoro a tempo determinato, i contratti di formazione-lavoro, le collaborazioni coordinate e continuative e il lavoro a tempo parziale – sebbene quest ultimo sia stato incentivato negli anni recenti nella pubblica amministrazione più come strumento di contenimento dei costi e di controllo del fenomeno del doppio lavoro che di flessibilità (l. 662/96, legge finanziaria per il 1997).
Sul piano normativo e contrattuale non sembrano dunque mancare gli strumenti sollecitati nel Dpef, anche se in certi casi può essere opportuna una messa a punto delle regole (come nel caso del part-time).
Sul piano dell’applicazione effettiva, tuttavia, sebbene non si disponga di un monitoraggio sistematico del fenomeno, alcune rilevazioni recenti sembrano mettere in luce scarti significativi rispetto al settore privato. In particolare, in una rilevazione promossa dall’Aran e curata da chi scrive[2], si è riscontrato da un lato una diffusione molto ampia di amministrazioni che fanno uso di forme di lavoro flessibile nei vari tipi, ma d’altro canto una incidenza sul personale che è nel complesso limitata, in percentuale probabilmente vicina o inferiore alla metà di quanto avviene nel settore privato. Inoltre l’utilizzo è alquanto differenziato tra comparti e tra le varie forme di contratti non-standard, con una maggiore diffusione ed incidenza dei contratti a tempo determinato, delle collaborazioni coordinate e continuative e soprattutto del part-time che, come già osservato, solo con molta cautela può essere considerato nella pubblica amministrazione una forma di flessibilità.
Come mostra la Tab. 1, la quasi totalità delle amministrazioni del campione ricorre al lavoro a tempo parziale, poco più di 3 su 4 ai contratti a tempo determinato e poco più della metà alle collaborazioni. Del tutto trascurabile invece la percentuale di amministrazioni che utilizza i contratti di formazione-lavoro e il telelavoro, e modesta anche la percentuale che fa uso di lavoro interinale – sebbene questi ultimi due strumenti, come già ricordato, siano stati introdotti molto di recente, ed in particolare l’interinale solo pochi mesi prima della rilevazione (ciò considerato, il 13% può indicare un certo interesse da parte delle amministrazioni). Circa le differenze tra comparti, si registra una percentuale di amministrazioni che ricorrono alle forme più ‘gettonate’ sempre più elevata nelle regioni e autonomie locali, nell’università e nella sanità. Mentre il part-time viene utilizzato dalla stragrande maggioranza delle amministrazioni del campione (90%) senza grandi differenze tra comparti, salvo una minore frequenza negli enti pubblici.
Tab.1. Amministrazioni che usano contratti non-standard di impiego del personale, per comparto (percentuali)
| REG. e AA.LL. | ENTI PUBB. | MIN. | UNIV. | SAN. | AZIEN. AUTON. | CAMPIONE |
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Form-Lav (n.casi 315) | 1,4 | 6,7 | 5,6 | 0,0 | 0,0 | 0,0 | 1,6 |
(n. casi 314) | 80,8 | 33,3 | 27,8 | 100,0 | 96,3 | 25,0 | 78,3 |
(n. casi 314) | 14,9 | 20,0 | 0,0 | 13,3 | 11,1 | 0,0 | 13,4 |
Co.Co.Co. (n. casi 312) | 59,9 | 26,7 | 11,1 | 80,0 | 60,4 | 0,0 | 55,8 |
(n. casi 313) | 6,3 | 0,0 | 0,0 | 0,0 | 1,9 | 0,0 | 4,5 |
(n. casi 317) | 88,5 | 73,3 | 94,7 | 93,3 | 98,2 | 100,0 | 90,2 |
Molto diversa è però la situazione per quanto riguarda l’incidenza delle forme di lavoro flessibile sul totale del personale occupato a tempo indeterminato (Tab. 2). Nel complesso, considerato l’insieme di lavoratori con contratti non-standard ad esclusione del part-time, l’incidenza sul totale dei lavoratori a tempo indeterminato del campione (dirigenti e medici compresi) è del 4,4%. A questo ammontare contribuiscono soprattutto i lavoratori con contratto a termine (2,8% del campione, ma 5,1% nelle regioni e autonomie locali e 4% nell’università), quelli con contratto di collaborazione (1,5%, ma 2,7% nell’università e 2,5% nei ministeri), ed in misura di gran lunga inferiore gli interinali (0,1%; ma si ricordi la sua introduzione molto recente rispetto alla data della rilevazione). Il part-time incide sul totale dei lavoratori a tempo indeterminato del campione per un altro 4,4%, senza radicali differenze per comparto (a parte le aziende autonome).
Sommando gli uni agli altri[3], l’incidenza di lavoratori con contratti non-standard è dell’8,7%, che supera l’11% nelle regioni e autonomie locali e il 10% nell’università, ed è invece del tutto trascurabile nelle aziende autonome. Tenendo conto che il campione sotto-rappresenta le amministrazioni di piccole dimensioni, è possibile che la percentuale effettiva sia ancora inferiore.
Tab. 2. Incidenza lavoratori con contratti non-standard, per comparto
(% sul totale dei dipendenti a tempo indeterminato)
| REG. e AA.LL. | EN. PUB. | MIN. | UNIV. | SANITA’ | AZIENDE | INTERO CAMPIONE |
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Form-Lav. | 0,0 | 0,3 | 0,0 | 0 | 0 | 0 | 0,0 |
T. Deter. | 5,1 | 0,2 | 1,9 | 4,0 | 2,3 | 0,0 | 2,8 |
Interinale | 0,2 | 0,4 | 0 | 0 | 0 | 0 | 0,1 |
Co.Co.Co. | 1,6 | 1,2 | 2,5 | 2,7 | 0,4 | 0 | 1,5 |
Telelavoro | 0,0 | 0 | 0 | 0 | 0 | 0 | 0,0 |
Tot. | 6,9 | 2,1 | 4,4 | 6,7 | 2,7 | 0 | 4,4 |
Part-time | 4,3 | 3,7 | 4,8 | 3,6 | 4,7 | 0,6 | 4,3 |
TOTALE | 11,2 | 5,8 | 9,2 | 10,4 | 7,4 | 0,7 | 8,7 |
E’ poco rispetto alla diffusione di forme di lavoro flessibile nel settore privato, o nel complesso dell’economia? Probabilmente sì, anche se non è facile fare una comparazione precisa per la non omogeneità dei dati disponibili.
L’Istat, nella Rilevazione trimestrale sulle forze di lavoro, fornisce tre ordini di dati: occupati permanenti a tempo parziale; tempo determinato a tempo parziale; tempo determinato a tempo pieno (dove il tempo determinato comprende anche l’interinale, i contratti di formazione-lavoro e gli apprendisti, ma non le collaborazioni coordinate e continuative e professionali, che sono registrate tra i lavoratori indipendenti). Nella Rilevazione relativa al gennaio 2001 (la rilevazione Aran faceva riferimento al mese di aprile dello stesso anno), questi tre gruppi erano rispettivamente il 5,85%, 3,02% e 6,38% del totale degli occupati dipendenti, per un totale del 15,2% (escluse le collaborazioni)[4]. In via molto grossolana e ‘tentativamente’, questo dato (inclusivo però degli apprendisti) potrebbe essere confrontato con il totale dei contratti non-standard della rilevazione Aran, escluse le collaborazioni: 7,2% (in cui però potrebbero esserci alcune sovrapposizioni tra i tempi determinati e i tempi parziali). Oppure, sempre per tentativi, si potrebbe confrontare il totale dei tempi parziali della rilevazione Istat (sia a tempo indeterminato che determinato), con il totale dei part-time del campione Aran: 8,9% contro 4,3%.
In breve, con tutte le cautele del caso, i contratti non-standard nella citata rilevazione Aran sembrano utilizzati per una percentuale di lavoratori uguale a circa la metà di quanto l’Istat riscontra nel complesso dell’economia, e forse meno. Ma occorrerebbero rilevazioni sistematiche e specificamente dedicate al tema per fare comparazioni meno approssimative e più fondate. Ed anche se occorrerebbe tenere conto di alcune peculiarità normative del pubblico impiego che possono limitare l’uso delle forme flessibili (ad es., il fatto che il reclutamento del personale debba passare attraverso un pubblico concorso depotenzia una delle ragioni più frequenti di uso di contratti non-standard nel settore privato, come l’interinale, che consiste nella ‘prova’ del personale).
In questo quadro generale due aspetti meritano però di essere sottolineati. In primo luogo che in comparti come le regioni e autonomie locali e l’università si raggiungono punte sensibilmente più elevate, pur se ancora inferiori ai valori del settore privato (ma si ricordi la recente introduzione del telelavoro e soprattutto dell’interinale). Ed in secondo luogo che, se si considerano le sole autonomie locali (210 casi), emergono alcune differenze territoriali, con una incidenza di utilizzo di quasi tutte le forme di impiego non-standard relativamente maggiore nelle regioni settentrionali (specie del nord-ovest) rispetto al resto del paese.
3.
Più delicato ancora valutare la seconda questione, relativa al possibile uso improprio di alcune forme di lavoro non standard. Qui ancor più sarebbero necessarie ricerche ad hoc, per analizzare le motivazioni che guidano le amministrazioni ad utilizzare le varie tipologie contrattuali, valutare se e quanto siano diffusi utilizzi impropri – o veri e propri abusi – di alcune di esse, come paventa il ministro, e infine per capire se alcune delle nuove forme di lavoro flessibile possano aiutare a contenere il fenomeno (ad esempio, attraverso sostituzione di lavoro interinale alle collaborazioni o alle prestazioni professionali)[5]. Tali ricerche potrebbero anche fornire utili indicazioni per eventuali revisioni delle normative in essere, se la gamma degli strumenti messi in campo dovesse rivelarsi inefficace.
In mancanza di informazioni precise, si possono in proposito fare solo delle congetture più o meno fondate, che dovrebbero tenere conto dei costi/vantaggi dei vari strumenti disponibili in relazione alle diverse esigenze organizzative (picchi periodici di attività, particolari situazioni di emergenza o urgenza, colmare carenze di particolari professionalità, sviluppo di progetti specifici di durata definita, ecc.), non affrontabili con il personale a tempo indeterminato o con le modalità di reclutamento ordinario. Una definizione a maglie larghe delle causali di utilizzo delle diverse forme di lavoro flessibile, come quella per il lavoro interinale recepita in vari contratti di comparto dovrebbe consentire di contenere utilizzi distorti o fenomeni di abuso (anche se per sua natura l’interinale ha un costo economico ‘vivo’ più elevato di altri strumenti). Ma naturalmente molto dipende dalla ‘virtuosità’ delle amministrazioni e dalla cultura gestionale dei dirigenti, in particolare dalla capacità di valutare le esigenze organizzative e di utilizzare rispetto ad esse in maniera integrata e complementare tutto l’insieme delle risorse umane a disposizione, a tempo indeterminato e non, senza sovrapposizioni e effetti moltiplicativi.
La citata rilevazione Aran non fornisce indicazioni specifiche in proposito. Essa mette però in luce una netta differenza nelle motivazioni di utilizzo delle diverse forme di impiego non-standard da parte delle amministrazioni tra part-time e tutti gli altri strumenti.
Mentre infatti per quanto riguarda il part-time (Tab. 3), la ragione assolutamente prevalente indicata dalle amministrazioni è la necessità di rispondere alle richieste dei lavoratori (89%, con punte del 95% nei ministeri e 100% nella sanità) piuttosto che di soddisfare esigenze di flessibilità dell’organizzazione (9%; 0 nei ministeri e nella sanità), per le altre forme di impiego non-standard (Tab. 4) la situazione è invece rovesciata. In tal caso prevalgono queste ultime ragioni, specie la necessità di colmare carenze di particolari figure lavorative (41,5%, specie nelle autonomie locali e nella sanità), di fronteggiare picchi imprevisti di attività (24%, specie nell’università), di accelerare le procedure di reclutamento (14%, ma 23% nella sanità), di assicurare lo svolgimento di attività cicliche programmate (11%). Come già osservato, l’uso di forme di impiego flessibile come strumento per ‘provare’ il personale, causale molto frequente nel settore privato, è qui pressoché inesistente, con una limitatissima eccezione nel comparto delle autonomie locali.
Tab. 3. Motivi per l’utilizzo del part-time da parte delle amministrazioni
| REG. e AA.LL. | ENTI PUBB. | MINIS. | UNIV. | SANITA’ | AZIENDE | INTERO CAMPIONE |
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A | 12,0 | 18,2 | 0 | 14,3 | 0 | 0 | 9,2 |
B | 86,3 | 72,7 | 94,4 | 85,7 | 100,0 | 100,0 | 89,1 |
C | 1,6 | 9,1 | 5,6 | 0 | 0 | 0 | 1,8 |
(n. casi) | (183) | (11) | (18) | (14) | (54) | (4) | (284) |
A. fronteggiare specifiche esigenze di flessibilità
B. rispondere esigenze dei lavoratori
C. altro
Tab. 4. Motivi utilizzo forme di impiego non-standard *
(cfl; tempo det.; co.co.co.; interinale; telelavoro)
| REG. e AA.LL. | UNIV. | SANITA’ | INTERO CAMPIONE |
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A | 11,4 | 8,0 | 22,8 | 13,8 |
B | 44,1 | 28,0 | 35,9 | 41,7 |
C | 22,9 | 44,0 | 25,0 | 23,8 |
D | 11,1 | 12,0 | 8,0 | 11,0 |
E | 1,3 | 0 | 0 | 1,1 |
F | 1,3 | 0 | 0 | 0,9 |
G | 7,8 | 8,0 | 8,7 | 7,8 |
(tot. risposte) | (306) | (25) | (92) | (446) |
* Possibili due risposte. I comparti degli enti pubblici non economici, dei ministeri e delle aziende autonome non sono stati considerati perché troppo basso il numero dei casi che hanno risposto. Essi sono però compresi nei dati dell’intero campione.
A. accelerare procedure reclutamento
B. colmare carenze di particolari figure
C. fronteggiare picchi di attività
D. assicurare svolgimento attività cicliche programmate
E. rispondere esigenze lavoratori
F. strumento per ‘provare’ il personale
G. altro
Oltre alle differenze per comparto già segnalate, non si registrano, in entrambi i casi, significative differenze per area geografica. Mentre qualche differenziazione si riscontra a seconda delle dimensioni della amministrazioni, in particolare un uso relativamente più frequente del part-time per esigenze di flessibilità negli enti locali con meno di 50 dipendenti (23% dei casi).
Nel complesso questi risultati, se ci dicono poco sul possibile utilizzo distorto di alcuni tipi di contratto non-standard, fanno emergere con chiarezza quanto improprio sia nella Pubblica amministrazione continuare a considerare alla stessa stregua le varie forme di lavoro flessibile ed il part-time. Quest’ultimo, infatti, quasi unanimemente, con limitate eccezioni tra gli enti locali di più piccole dimensioni, viene ritenuto dalle amministrazioni uno strumento non per rispondere a esigenze di flessibilità organizzativa bensì per soddisfare le richieste dei lavoratori.
[1] ‘Frattini: per gli statali una cura di flessibilità’, in Il Sole-24 Ore, 11 luglio 2002, p. 3.
[2] Cfr. Bordogna L. (a cura di), Contrattazione integrativa e gestione del personale nelle pubbliche amministrazioni. L’esperienza del quadriennio 1998-2001, Quaderni Aran, Milano: Angeli Editore 2002. La rilevazione è stata effettuata nei mesi di maggio-luglio 2001, ed i dati sull’occupazione non-standard si riferiscono alla situazione di aprile 2001. Il campione su cui è stata fatta la rilevazione, costituito da 320 amministrazioni di tutti i comparti (esclusa scuola e ricerca, perché non ancora interessati alla contrattazione integrativa) distribuiti sull’intero territorio nazionale (escluse le regioni a statuto speciale), è il medesimo utilizzato periodicamente dall’Aran per il monitoraggio dell’andamento del costo del lavoro. Le due componenti maggiori sono rappresentate da amministrazioni del comparto delle autonomie locali (tutte le regioni a statuto ordinario, province, comuni, comunità montane, camere di commercio, ecc.) e della sanità. Dati gli scopi per i quali è costruito, in esso sono in parte sotto-rappresentate, ma non assenti, le amministrazioni di più piccole dimensioni, con meno di 50 dipendenti, in particolare i piccoli comuni; d’altro canto il campione ‘copre’ quasi il 30% dei dipendenti pubblici contrattualizzati, ed in alcuni comparti la totalità o quasi del personale (aziende autonome, ministeri, enti pubblici non economici). Per maggiori dettagli sulle caratteristiche del campione si rinvia al volume citato, ed in particolare ai saggi di Cananzi e Bordogna.
[3] Come già detto, tuttavia, sommare i due fenomeni sembra improprio se ciò che si vuole misurare è l’incidenza delle forme di lavoro flessibile, non dei contratti non-standard.
[4] Il totale degli occupati dipendenti ammontava a 15,346 milioni, degli indipendenti a 5,927 milioni. Per quanto riguarda le co.co.co, secondo una rilevazione del 1999 del Ministero Lavoro, gli iscritti all’INPS erano 1746000, di cui attivi (cioè che versavano contributi) 1272000. Di questi ultimi, circa i 2/3 (69,6%) hanno fatto solo versamenti 10 o 13%: si possono considerare i ‘parasubordinati puri’ (circa 885000; ringrazio Roberto Pedersini per queste informazioni). Sulla diffusione delle forme di lavoro non standard in Italia, con particolare riferimento alle collaborazioni coordinate e continuative, v., tra altri, Altieri G.-Carrieri M., Il popolo del 10%. Il boom del lavoro atipico, Roma: Donzelli 2000, con Introduzione di Accornero, e letteratura ivi citata.
[5] V. in proposito le osservazioni di Ricciardi e Matteini nel volume citato (Bordogna 2002).